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La Notizia - Il Sole 24 Ore Rassegna Stampa
16.11.2017 No agli scambi di aziende italiane con il regime iraniano
Commenti di Stefano Sansonetti, Riccardo Barlaam

Testata:La Notizia - Il Sole 24 Ore
Autore: Stefano Sansonetti - Riccardo Barlaam
Titolo: «Invitalia in Iran. La missione più spericolata - Arabia, trading vietato agli sceicchi, Citi e Ubs tra le banche più esposte»

Riprendiamo dalla NOTIZIA di oggi, 16/11/2017, a pag. 7, con il titolo "Invitalia in Iran. La missione più spericolata", il commento di Stefano Sansonetti; dal SOLE 24 ORE, a pag. 45, con il titolo "Arabia, trading vietato agli sceicchi, Citi e Ubs tra le banche più esposte", il commento di Riccardo Barlaam.

Ecco gli articoli:

LA NOTIZIA - Stefano Sansonetti: "Invitalia in Iran. La missione più spericolata"

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Per molti osservatori quella norma della Manovra è un'autentica follia. E in certi punti rischia addirittura di violare le normative antiriciclaggio e contro il finanziamento del terrorismo. Del resto lo stesso Governo, nel decidere come districarsi nel ginepraio iraniano, sembra averla combinata grossa. E adesso su quella stessa norma minaccia di abbattersi una valanga di emendamenti. All'attenzione ci sono gli investimenti pubblici per garantire il business delle imprese italiane con Teheran. Fino a quale mese fa, complici le declinanti sanzioni americane all'Iran, sembrava che i rapporti bilaterali potessero essere riaccesi (prima delle tensioni l'interscambio tra i due paesi era di 7 miliardi di euro, oggi è crollato a 1,6). Poi, con l'arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, che ha ripreso le ostilità con l'Iran, lo scenario è cambiato.

IL PASSO INDIETRO La Cassa Depositi e Prestiti, guidata dal presidente Claudio Costamagna e dall'Ad Fabio Gallia, come raccontato ieri da La Notizia ha deciso che in questo momento è troppo rischioso andare a garantire i crediti delle imprese italiane verso Teheran con l'utilizzo della controllata Sace. E pensare che il Governo italiano aveva organizzato due maxi missioni per riallacciare i rapporti con il Paese arabo. Nel novembre del 2015 l'allora viceministro allo Sviluppo, Carlo Calenda (oggi ministro), aveva guidato una delegazione di 178 imprese. Nel febbraio 2016, sempre con Matteo Renzi premier, erano stati i ministri Maurizio Martina (politiche agricole) e Graziano Delrio (infrastrutture) ad accompagnare in Iran 197 imprese. La stessa Cdp, certo non esente da errori di previsione, il successivo 12 aprile 2016 annunciò nuove linee di credito e garanzie per 4 miliardi a favore delle attività delle imprese italiane in Iran. Da quando Trump ha fatto cambiare lo scenario di riferimento, però, Cdp ha ingranato la retromarcia.

LA TROVATA Ed è qui che il Governo, stavolta guidato da Paolo Gentiloni, con Pier Carlo Padoan al Ministero dell'economia, ha tirato fuori dal cilindro la norma della Manovra che affida di punto in bianco alla controllata Invitalia, guidata da Domenico Arcuri e ormai autentica società calderone, l'attività di assicurazione dei crediti all'export. Una scelta come minimo contraddittoria: da una parte il gruppo Cdp-Sace, controllato dal Tesoro, considera l'Iran troppo a rischio e si ritira dall'attività di garanzia alle imprese; dall'altra lo stesso Tesoro ritiene evidentemente quel rischio non esistente in capo a un'altra sua controllata, Invitalia, e le affida la delicata mission.

INTERVENTI IN CANTIERE Proprio per questo in Parlamento sono in preparazione emendamenti per correggere il tiro. C'è anche chi sostiene (vedi in proposito l'intervista in pagina all'ex ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant'Agata), che questa norma contrasta con le normative europee antiriciclaggio. I 100 milioni stanziati dal Governo, che attraverso una leva salirebbero a 1 miliardo, potrebbero anche favorire abusi nell'assunto che tanto c'è la garanzia di Invitalia. E magari andare a finanziare attività borderline in un Paese non più così "idilliaco" come sembrava fino a qualche mese fa.

IL SOLE 24 ORE - Riccardo Barlaam: "Arabia, trading vietato agli sceicchi, Citi e Ubs tra le banche più esposte"

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Una storia che non sarebbe venuta in mente neanche ai migliori sceneggiatori di Hollywood. In Arabia Saudita sta andando in scena in questi giorni, dopo il5 novembre, una sorta di guerra dei Roses tra gli sceicchi. Sullo sfondo ci sono i miliardi facili dei petrodollari. Duecento e otto persone sono state arrestate, l'élite politica ed economica del paese. Undici principi, 4 ministri, decine di ex ministri e molti uomini d'affari, tra i più noti del paese. L'accusa parla di «corruzione sistematica» che avrebbe tolto alle casse di Riad qualcosa come 100 miliardi di dollari serviti per alimentare negli ultimi decenni le percentuali di "fuori budget", leggasi mazzette.

Cento miliardi di dollari è l'equivalente del debito pubblico saudita Soldi che facilitavano, aprivano le porte, aiutavano a concludere contratti. Tra oro, sfarzo, marmi lucidi, grandi alberghi, meeting internazionali e strette di mano. Gli arresti del blitz anti corruzione ordinati dal Re Salman e da suo figlio, il principe Mohammed, alla fine di un'inchiesta durata tre anni, si sono trasformati in una detenzione dorata per molti sceicchi, obbligati a restare da allora chiusi nell'Ritz-Carlton di Riad. Hotel cinque stelle superior dove qualche mese fa dormì persino il presidente americano Donald Trump in occasione della sua visita in Arabia Saudita Dopo gli arresti sono arrivati i sequestri degli ingenti conti bancari degli arrestati: alla Borsa di Riad nei cinque giorni successivi al blitz del 5 novembre ci sono state vendite azionarie record per 19 miliardi di dollari. Diversi grandi investitori hanno liquidato posizioni e spostato capitali all'estero. Ieri la Capital market autority dell'Arabia Saudita ha congelato i conti usati per il trading dagli sceicchi arrestati. La "Consob" locale ha chiesto ai broker di sospendere le operazioni per decine di principi, miliardari e ufficiali pubblici coinvolti nello scandalo che da oggi non potranno più vendere o comprare azioni alla Tadawul stock exchange.

Alla fine della scorsa settimana la Sama, la Banca centrale dell'Arabia Saudita ha sequestrato i conti bancari di tutti i ao8 arrestati, ma non quelli delle società in cui molti di questi uomini d'affari operano. Si muove Riad e i paesi amici le vanno dietro, perché molti miliardari sauditi hanno nel frattempo venduto e spostato investimenti trai paesi del Golfo. Per questo motivo la Banca centrale degli Emirati Arabi Uniti, a sua volta, ha chiesto informazioni alle istituzioni finanziarie sui conti di 19 cittadini sauditi. Chiede di essere informata su ogni conto bancario, deposito, investimento, apertura di credito o strumento finanziario legato a questi 19 sceicchi, che sono tra gli arrestati di Riad. Le grandi banche europee ed americane gestiscono i patrimoni dei sauditi più ricchi. Citgroup e Ubs sono tra le più esposte dai sequestri della banca centrale: stanno già collaborando con gli inquirenti in cerca di prove sulle accuse di corruzione. JpMorgan Chase e Co., Credit Suisse e Deutsche Bank sono le altre global blank presenti a Riad che cercano di intercettare le ricchezze degli ultra ricchi. È presto per poter valutare l'impatto che avranno i sequestri sui conti delle global bank.

Grandi banche che saranno, in ogni caso, chiamate a sostenere dei costi addizionali per gestire tutte le richieste legate alle indagini e per mantenere gli obblighi in essere con i loro facoltosi clienti. Tra gli arrestati eccellenti di Riad ci sono tre persone tra le più ricche al mondo con asset per oltre3o miliardi di dollari. Il principe Alwaleed bin Talal, il "Warren Buffett saudita", Mohamed Al Amoudi che controlla investimenti in Africa, Europa e Arabia e Saleh Kamel che opera nel banking islamico, nell'alimentare e nel real estate. E impossibile tuttavia quantificare l'ammontare dei patrimoni messo sotto chiave perché nel private bank il segreto è un dogma. E gli asset miliardari dei "clienti speciali", come gli ultra ricchi sauditi, finiscono di solito nascosti nei conti offshore, in qualche paradiso fiscale.

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