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La Stampa Rassegna Stampa
03.12.2023 I due mesi che hanno sconvolto gli israeliani
Commento di Elena Loewenthal

Testata: La Stampa
Data: 03 dicembre 2023
Pagina: 6
Autore: Elena Loewenthal
Titolo: «I due mesi che hanno sconvolto gli israeliani»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 03/12/2023, a pag.6, con il titolo "I due mesi che hanno sconvolto gli israeliani" il commento di Elena Loewenthal.

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Elena Loewenthal

Thousands rally in Tel Aviv for hostages; Netanyahu critics renew Jerusalem  protests | The Times of Israel

Due mesi. Due mesi di guerra in Israele, a Gaza e nei territori palestinesi. Dal 7 ottobre, anzi da quell'indomani in cui si è cominciato a comprendere la portata dell'orrore – perché ci son volute ore e giorni – lo Stato ebraico si trova precipitato in una realtà parallela quale prima non avrebbe certo immaginato, che avrebbe considerato alla stregua di uno spettro improbabile. Ma questa guerra che è tutto fuorché lineare in una serie di accezioni mai sperimentate prima è iniziata non come un conflitto ma come un pogrom a tutti gli effetti: una strage di civili perpetrata con l'unico obiettivo di sterminarne il più possibile. È stato Netanyahu, per proteggere se stesso dai prevedibili attacchi alla imperdonabile falla nei sistemi di sicurezza e intelligence del suo sciagurato governo, a chiamare impropriamente da subito "guerra" il peggior atto terroristico della storia contemporanea, per efferatezza e proporzioni. Da due mesi Israele vive in una condizione esistenziale e politica immaginabile sino alla vigilia di quel terribile, inenarrabile giorno. Trascinato di nuovo a Gaza benché vi si sia ritirato da quasi vent'anni, il Paese si trova costretto a fare i conti con un conflitto esteso come nessun altro prima: sui social media, nel moltiplicarsi di immagini e video, nella impensabile (o forse, purtroppo, terribilmente prevedibile) montata di odio antisemita ai quattro angoli del mondo. Soprattutto, nella mobilitazione di centinaia di migliaia di soldati, e in quella paura per gli ostaggi che fa ormai parte del comune vissuto quotidiano. La paura e l'incertezza hanno scardinato tanto, in Israele in queste settimane. E resta l'incredulità nell'aver dovuto assistere e quel che si è visto succedere nei kibbutz assaltati, distrutti, teatro di una strage impensabile. La guerra, purtroppo, è una costante nella storia dello Stato ebraico moderno, a cominciare da quella che i Paesi arabi gli mossero all'indomani del 29 novembre 1947, quando l'Onu sancì la creazione di due Stati palestinesi, uno ebraico e uno arabo. Di guerre Israele ne ha viste tante, ma mai una così, che in questi ultimi due mesi ha cambiato tanto. Ha, ad esempio e ben presto, rimesso in gioco quasi tutti i posizionamenti politici, i presupposti ideologici, la capacità e il modo di schierarsi. I fronti progressisti hanno dovuto ripensare il proprio rapporto con tanti omologhi nel mondo, vedendosi "traditi" da posizioni pregiudizialmente anti israeliane per non dire antisemite: lo slogan "Palestina libera dal mare al fiume" che di fatto propugna la negazione dello Stato ebraico, ha spazzato via sodalizi consolidati con l'ambientalismo e gran parte dei movimenti femministi. La sinistra israeliana, che è tanta, ha dovuto affrontare non soltanto i diecimila missili lanciati in questi due mesi contro tutto il territorio del proprio Paese, ma anche e contemporaneamente i colpi di un attacco ideologico globale, tanto compatto quanto incomprensibile. Per altro verso la protesta antigovernativa si è rafforzata raccogliendo parti del Paese tradizionalmente "fedeli" a Netanyahu. Tutto, insomma, è cambiato in questi due mesi di guerra, sul fronte politico, negli schieramenti e nei movimenti d'opinione. È rimasto, peraltro, quel senso di solidarietà interna che viene fuori spontaneamente in tutto il Paese in caso (non raro) di emergenza, che travalica ogni posizione e fronte politico, culturale, sociale. Gli ostaggi. Sono loro al cuore d'ogni pensiero sul presente e sul futuro. Loro, con le loro vite (o le loro morti). Loro, e la terribile constatazione che è potuto accadere quel che è accaduto, entro i confini del proprio Paese. Gli ostaggi sono l'anello di disgiunzione fra il prima e il dopo, nella storia d'Israele: hanno rimesso in gioco presupposti, fiducia e paura, ogni capacità di predizione logica. La guerra non finirà sino a che, vivi o morti, gli ostaggi non saranno tornati in Israele, e non perché lo ripeta un primo ministro che non può non essere consapevole dei propri imperdonabili errori e contro il quale continuano le proteste di piazza, sempre più rabbiose. Perché la sorte degli ostaggi e la storia di cui sono loro malgrado testimoni è parte integrante del futuro d'Israele. Anche, forse soprattutto per questo, la guerra cominciata all'indomani del 7 ottobre è più imprevedibile che mai.

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