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Il Manifesto Rassegna Stampa
14.12.2012 Quando un giornale (vicino alla chiusura) sprofonda nel ridicolo
due paginate per diffamare Israele

Testata: Il Manifesto
Data: 14 dicembre 2012
Pagina: 7
Autore: Michele Giorgio - Emma Mancini
Titolo: «Non c’è posta per te - Palestinese ucciso a Hebron, rivolta e stato d’emergenza»

Riportiamo dal MANIFESTO di oggi, 14/12/2012, a pag. 7 l'articolo di Michele Giorgio dal titolo " Non c’è posta per te ", a pag. 8, l'articolo di Emma Mancini dal titolo " Palestinese ucciso a Hebron, rivolta e stato d’emergenza ".

Ad abbandonare il Manifesto è stato ieri anche Valentino Parlato, uno dei fondatori del giornale.
In preda al panico, si sprecano le paginate dedicate alle solite menzogne contro Israele. Due pagine di Michele Giorgio per dire che la posta nell'Anp non funziona ci pare ridicolo rispetto ai toni che il quotidiano comunista ha sempre usato per attaccare Israele. Mezza pagina (sempre di Giorgio) dedicata a mentire sull'uccisione di un palestinese, il quale aveva estratto la pistola di fronte a quattro soldati israeliani, i quali, non gradendo di essere un tiro a segno, hanno, giustamente, sparato per primi.
Ecco le due Giorgio-paginate:

Michele Giorgio -  " Non c’è posta per te "

«Rekov HaMalakh Belavan». Era uno di quei giorni bastardi di Gerusalemme quel 18 aprile 2007, uno di quelli, per fortuna rari, in cui il khamsin, il vento africano caldo e polveroso, dopo aver investito l’Egitto e i deserti del Sinai e del Negev, si spinge fino a Gerusalemme colorando di un rosso cupo il cielo e spargendo sabbia ovunque, negli angoli più nascosti. Eppure Abu Tareq era contento. Uscendo di casa aveva notato che gli operai del comune, quelli che la sera prima avevano sistemato un marciapiede davanti casa, avevano anche agganciato ad un palo di metallo alto un paio di metri, sul lato opposto della strada, una targa con la scritta «HaMalach Belavan Street» che avrebbe da quel momento in poi indicato la stradina nella quale da poco vivevano alcune famiglie israeliane. Tempo prima quando le ruspe spianavano il terreno a poca distanza delle sue finestre, si era rammaricato pensando che i «vicini » israeliani avrebbero portato con loro un insidioso movimento di automezzi della polizia e l’insopportabile routine di «controlli di sicurezza» ai quali sono soggetti i palestinesi. Poi aveva cominciato a valutare anche i benefici indiretti di quella scomoda presenza. Il nome di quella strada, in lingua ebraica, lo avrebbe aiutato nei rapporti con le autorità comunali. «Dove abiti?», «Di fronte a via HaMalakh Belavan », avrebbe risposto Abu Tareq con tono perentorio senza più dover pronunciare nomi arabi che subito mettono in allarme gli israeliani. «Sono in un posto tranquillo, abito davanti alla vostra gente, inviate pure senza timore i vostri ispettori», diceva con un filo di voce, muovendo appena le labbra, immaginando futuri colloqui con i responsabili del comune. Il quartiere Abu Tur Quel cartello gli piaceva proprio, certo avrebbe preferito un altro nome, arabo naturalmente. Non dimenticava che il suo quartiere, Abu Tur, è parte di al Quds, Gerusalemme, e che la zona araba della città era stata occupata dagli israeliani con la forza delle armi nel 1967. Quel giorno però la politica aveva poco spazio nei pensieri dell’anziano Abu Tareq che tante ne aveva sopportate nella sua vita. Preferiva concentrarsi sui vantaggi indiretti che avrebbe ricevuto da quella targa. «Ha- Malakh Belavan Street», continuava a ripetere, rallegrandosi per la novità. D’ora in poi le cose sarebbe state meno complicate, si diceva osservando i vicini israeliani che da qualche mese animavano le palazzine a due piani, ricoperte da lastre di pietra, bianca come di buona parte degli edifici di Gerusalemme, e che si tenevano a distanza dai palestinesi grazie a un robusto cancello elettronico posto all’ingresso della strada. In occasione del suo viaggetto annuale al Cairo, dove viveva il figlio, avrebbe potuto convincere la centralinista della compagnia di trasporti Nesher (che effettua un servizio-navetta con l’aeroporto di Tel Aviv) a recuperarlo sotto casa e non più davanti ad un hotel israeliano. «Quelli della Nesher dicono che nei quartieri palestinesi loro non ci vanno, perché non vogliono correre rischi. Ora, miei cari israeliani ve l’ho fatta, vivo davanti via HaMalakh Belavan, non potete più rifiutarvi di venirmi a prendere», continuava a pensare ad alta voce. Strade senza nome E quella volta che il Magen David Adom (simile alla Croce Rossa) negò l’invio immediato di un’ambulanza per suo cugino colpito da una crisi respiratoria? «Il vostro quartiere è a rischio. Senza la scorta della polizia l’ambulanza non la facciamo partire e in questo momento non ci sono pattuglie disponibili», gli risposero incuranti delle sue implorazioni. «Ma noi facciamo parte del sistema sanitario israeliano, paghiamo regolamente tutti i mesi. E poi perché dovremmo attaccare un’ambulanza che viene a portare soccorso a mio cugino. Siamo esseri umani anche noi», replicò Abu Tareq con tono perentorio cercando di far valere i suoi diritti e di difendere la dignità della sua gente. Le proteste non servirono a nulla ma per fortuna la crisi respiratoria del cugino venne risolta all’ospedale palestinese al Makassed, al Monte degli Ulivi. «Anche i nostri medici sono bravi», commentò Abu Tareq in quell’occasione. L’amarezza che gli aveva procurato quel ricordo passò presto, sostituita dalla certezza che d’ora in poi non avrebbe avuto problemi nel chiedere il soccorso di una ambulanza israeliana. «HaMalakh Belavan», erano le parole magiche. Magari, pensò ancora, avrebbe anche ricevuto lettere e cartoline, proprio come i vicini israeliani che, dalla sua finestra, vedeva aprire i box della posta e rientrare a casa talvolta sorridenti e altre volte pensierosi con inmano le bollette da pagare. A pochi metri da casa... Ne è passato di tempo da quando Abu Tareq fantasticava su una vita un pò più facile sotto l’occupazione israeliana. Solo una delle soluzioni che aveva immaginato cinque anni fa si è materializzata: il viaggetto al Cairo che ora ha inizio comodamente davanti casa. Lettere e cartoline invece no, il servizio postale nella zona palestinese era e rimane inesistente. A pochi metri da casa sua, i vicini israeliani ricevono regolarmente la corrispondenza. Lui invece deve recarsi un paio di volte a settimana all’ufficio postale di via Salah Edin dove lettere, cartoline e bollette arrivano alla sua casella a pagamento. E può anche dirsi fortunato. Molti altri palestinesi lo invidiamo, gli domandano come ha fatto a trovare una casella postale libera. Prima dell’occupazione Lui risponde che una trentina di anni fa non era così difficile, poi la popolazione è aumentata e che gli israeliani non si preoccupano di soddisfare la richiesta di servizi pubblici che cresce di anno in anno nella zona araba di Gerusalemme. Prima dell’occupazione nel 1967 e ancora prima della creazione dello Stato di Israele nel 1948, il servizio postale nella Palestina sotto il Mandato coloniale britannico, funzionava e anche bene, soprattutto non faceva differenza tra ebrei e palestinesi. I successivi colonizzatori non hanno seguito lo stesso esempio. Ed era originale, in un certo senso «internazionale», prima dello smembramento dell’impero Ottomano, di fatto cominciato nell’Ottocento e che andò a compimento dopo la Prima Guerra Mondiale. In quel periodo la Turchia, che controllava la Terra Santa da secoli, aveva diviso l’area in tre regioni (sanjaq) - Gerusalemme, Nablus e Acri – che potevano contare su di un servizio postale, ancora poco affidabile ma operativo. Già nella primametà dell’Ottocento, le grandi potenze dell’epoca istituirono propri uffici postali in Terra Santa come in altre zone dell’ex impero Ottomano. Lo fece l’Austria che nel 1837 stipulò l’accordo con il Lloyd per la raccolta e il trasporto della corrispondenza via mare e che nel 1852 aprì il suo primo ufficio postale a Gerusalemme, dimostrando in quell’occasione la ben nota efficienza asburgica. Non mancò di farlo la Francia che a partire dalla metà dell’Ottocento aprì uffici postali presso le rappresentanze consolari, in particolare a Gerusalemme (1858) e a Giaffa (1852). Lo fecero anche la Russia e, subito dopo, la Germania e l’Italia. Le poste italiane furono tra le ultime ad aprire un proprio ufficio a Gerusalemme, il primo giugno 1908, che, tuttavia, fu chiuso nel 1911 a causa della guerra italo-turca. Venne riaperto il primo dicembre 1912 e definitivamente chiuso dalle autorità turche il 30 Settembre 1914 (sorte toccata a tutti gli altri servizi postali stranieri). I britannici, durante il loro Mandato in Palestina e i giordani, che hanno controllato la Cisgiordania e Gerusalemme Est, inclusa la Città Vecchia, dalla fine del primo conflitto arabo-israeliano (1948-49) fino alla Guerra dei Sei Giorni nel 1967, hanno garantito, i primi ad ebrei ed arabi, i secondi ai palestinesi, un servizio postale efficiente, anche se non capillare. Dopo il 1967, a Gerusalemme Est il servizio postale divenne fantasma, inesistente, e questa situazione continua dopo oltre quarant’ anni. L’ufficio di via Salah Edin Certo esiste l’ufficio postale «generale » di via Salah Edin, l’arteria principale nella parte araba della città, e agenzie minori in alcune aree palestinesi, come Beit Hanina e Shuffat, ma se non si possiedono le preziose chiavi di una casella postale è impossibile ricevere gli auguri di Natale e quelli di una «Eid Mubarak» al termine del Ramadan islamico. Le autorità israeliane non si preoccupano di spiegare la loro indifferenza verso questo problema così sentito dai palestinesi. Le ragioni che i responsabili dello Stato ebraico offrono in questo caso, sono abbastanza scontate: la toponomastica insufficiente in gran parte della zona araba di Gerusalemme (che il comune, in ogni caso, non si preoccupa di aggiornare e sviluppare) e la mancanza di sicurezza per i postini che, dicono, per consegnare la corrispondenza ai palestinesi dovrebbero andare in giro con la scorta della polizia, come le ambulanze del Magen David Adom. E 250mila abitanti? Motivazioni poco convincenti. Le poste israeliane potrebbero assumere postini palestinesi, proprio come ha fatto la Bezeq, la compagnia telefonica, con impiegati e tecnici arabi a Gerusalemme Est. Prevale perciò il disinteresse verso i 250mila abitanti palestinesi che pure a Gerusalemme ci vivono da generazioni a differenza di una bella fetta dei residenti israeliani giunti, in non pochi casi, appena qualche anno fa nella Città Santa, da paesi lontani. «Non mi portano la posta a casa perché la strada dove abito non ha un nome, eppure quando ci sono l’arnona (l’equivalente dell’italiana Imu) e altre tasse comunali da pagare, gli israeliani sanno bene dove trovarmi. Una volta sono andato al Catasto e ho visto che gli edifici arabi sono tutti ben indicati», spiega Abu Tareq che, come altri palestinesi, ha il sospetto che la mancanza del servizio postale a Gerusalemme Est sia dovuta ad un preciso disegno dell’intelligence israeliana che, attraverso le caselle postali, riuscirebbe ad avere un controllo più capillare della corrispondenza diretta ai palestinesi. È vero o è frutto dell’immaginazione dell’anziano Abu Tareq? Non si sa, ma è un dato di fatto che anche il servizio postale dell’Autorità nazionale palestinese, operativo, almeno in via teorica, nelle città autonome della Cisgiordania e a Gaza, deve per forza appoggiarsi al sistema israeliano, come stabilito dagli accordi di Oslo. Il titolo di un romanzo e di un film molto famosi avvertono gli amanti, travolti dalla passione e accesi da desideri omicidi, che «Il postino suona sempre due volte». A Gerusalemme Est gli amanti possono stare tranquilli: il postino non bussa mai. I palestinesi possono consolarsi pensando che non saranno protagonisti di una versione locale di una nota trasmissione televisiva italiana. Nessun finto postino potrà mai consegnare loro una mega busta accompagnandola con la frase: «C’è posta per te».

Emma Mancini  - " Palestinese ucciso a Hebron, rivolta e stato d’emergenza "

La rappresaglia israeliana per l’ammissione della Palestina alle Nazioni Unite come Stato non membro prosegue ed insanguina la Cisgiordania. Dopo l’annuncio della costruzione di tremila nuove unità abitative in area E1 e il congelamento del trasferimento delle tasse palestinesi nelle casse di Ramallah, Tel Aviv passa alle armi. Nei giorni scorsi il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, aveva dato il via libera all’esercito: aprire il fuoco contro i civili palestinesi, se rappresentano una minaccia. Mercoledì sera la minaccia si è incarnata in un giovane palestinese, Mohammed Ziad al-Sulaima. Mohammed, 17 anni compiuti proprio mercoledì, è stato ucciso da sei colpi di fucile. Ad aprire il fuoco una soldatessa israeliana. Il giovane si trovava vicino alla Moschea di Abramo, ad Hebron, in piena area H2. Dal 1994 Hebron è divisa in due: H1, sotto il controllo palestinese; e H2 sotto quello israeliano. Un’occupazione nell’occupazione. Mohammed aveva tra lemani una pistola giocattolo, secondo il portavoce dell’esercito Mickey Rosenfeld. Disarmato, secondo la famiglia. La soldatessa ha preso il fucile e sparato sei colpi. Mohammed è morto subito. Immediata la reazione della popolazione palestinese di Hebron: da mercoledì sera si susseguono gli scontri tra esercito israeliano emanifestanti. Da una parte gas lacrimogeni e proiettili di gomma, dall’altra pietre. Ieri mattina, l’esercito israeliano ha dichiarato lo stato d’emergenza nella città, per l’intensificarsi delle proteste. Cinquemila palestinesi sono scesi per le strade di Hebron per gridare la loro rabbia durante i funerali del ragazzo, avvolto nella bandiera verde di Hamas. Decine di giovani si sono scontrati con le truppe israeliane: cinque feriti e quattro bambini arrestati. A infiammare ulteriormente la comunità palestinese, l’arresto da parte dell’esercito di Tel Aviv del fratello e del cugino di Mohammed. Dopo la morte del giovane, le truppe d’occupazione sono entrate nella casa della sua famiglia e hanno stretto le manette ai polsi al cugino e al fratello, ex prigioniero palestinese rilasciato lo scorso anno nell’ambito dell’accordo tra Hamas e Israele per la liberazione del soldato dell’IDF Gilad Shalit. Il padre diMohammad, accorso sul posto per portare via il corpo del figlio, è stato allontanato con la forza dai soldati che lo hanno colpito alla gamba con un proiettile di gomma: l’uomo è stato ricoverato con lievi ferite. Mala tensione del dopo-Onu non si respira solo per le strade. I vertici israeliani intendono vendicarsi, attirandosi le critiche dell’Unione Europea che lunedì si è riunita per stabilire sanzioni contro Tel Aviv. Una discussione che non pare concretizzarsi, per le posizioni divergenti dei 27. Come spesso è accaduto in passato, l’Europa preferisce aspettare: «Vediamo cosa accade dopo le elezioni e se davvero Israele inizierà i lavori in area E1», ha commentato da Bruxelles un membro della delegazione francese. Maad Israele non basta. Il premierNetanyahu accusa l’Autorità Palestinese di aver abbandonato il tavolo del negoziatomettendo in piedi un’iniziativa unilaterale che danneggia il processo di pace. Ma ieri il presidente MahmoudAbbas ha risposto alle minacce israeliane, dicendosi pronto a riaprire il dialogo nel momento in cui Israele porrà fine ai piani di espansione coloniale in Cisgiordania. L’apertura è giunta ieri durante la visita ufficiale della delegazione palestinese ad Ankara: Abbas ha annunciato l’intenzione di procedere legalmente contro Israele in un’azione congiunta con la rappresentanza diplomatica turca alle Nazioni Unite. Obiettivo, fermare il piano di costruzione di 3.000 nuove unità abitative in area E1, tra Gerusalemme e la Valle del Giordano, un progetto che spezzerebbe in due la Cisgiordania rendendo nella pratica impossibile la creazione di uno Stato di Palestina. “Abbiamo raggiunto un’intesa con il governo turco su due punti – ha detto Abbas – Primo, un coordinamento con la rappresentanza turca alle Nazioni Unite e, secondo, l’assistenza legale degli esperti del Ministero degli Esteri turco”. “Adesso abbiamo tra le mani nuovi strumenti per agire, in qualità di Stato riconosciuto dalle Nazioni Unite”, ha aggiunto Abbas: ovvero, la possibilità di rivolgersi alla Corte Internazionale di Giustizia.Ora lo Stato occupato di Palestina, secondo il presidente dell’ANP, è in grado di far rispettare il diritto internazionale e di applicare la quarta Convenzione di Ginevra per fermare le colonie israeliana: “Abbiamo ottenutomolti diritti attraverso il riconoscimento come Stato non membro alle Nazioni Unite. Ma non ci presenteremo alle corti internazionali se Israele deciderà di tornare al negoziato”. Uno scambio, quello proposto da Abbas: lo stop dell’espansione coloniale in cambio della rinuncia alla Corte Internazionale.

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