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israele.net Rassegna Stampa
30.09.2023 Come ad Armageddon, è in Israele che la battaglia globale per la democrazia sarà vinta – o persa
Analisi di Uriel Abulof, da Israele.net

Testata: israele.net
Data: 30 settembre 2023
Pagina: 1
Autore: Uriel Abulof
Titolo: «Come ad Armageddon, è in Israele che la battaglia globale per la democrazia sarà vinta – o persa»
Come ad Armageddon, è in Israele che la battaglia globale per la democrazia sarà vinta – o persa
Analisi di Uriel Abulof, da Israele.net

Come ad Armageddon, è in Israele che la battaglia globale per la democrazia  sarà vinta – o persa - Israele.net - Israele.net
Uriel Abulof

Il famoso apologo della rana che viene gradualmente bollita fino a morire senza rendersene conto è falso (spoiler: in realtà la rana salterebbe fuori dalla pentola). Ma suona bene: ci riconosciamo in quella rana. Sebbene la rana non confonda affatto una pentola calda con una vasca da idromassaggio, le persone a volte lo fanno. Come in questi tempi in cui i cittadini un po’ in tutto il mondo tendono a eleggere entusiasticamente dei leader che li porteranno lentamente alla dittatura. Nel complesso, il mondo è diviso quasi equamente tra 90 democrazie e 89 autocrazie. Ma solo il 13% della popolazione mondiale – un miliardo di persone – vive in democrazie liberali. Secondo un recente rapporto di Varieties of Democracy (V-Dem), “i progressi compiuti negli ultimi 35 anni nel livello globale di democrazia sono stati spazzati via”. Il rapporto indica 42 paesi autocratizzanti (paesi che si stanno orientando verso l’autocrazia), comprendenti il 43% della popolazione mondiale, mentre il numero di paesi in via di democratizzazione è sceso a 14, pari a solo il 2% della popolazione mondiale: il livello più basso dal 1973. Stiamo scivolando lungo una china pericolosa che va dalla democrazia liberale alla democrazia elettorale, all’autocrazia elettorale, all’autocrazia chiusa. Le cose non stanno andando bene. E la situazione sembra peggiorare. Poiché il rapporto V-Dem non copre il 2023, in esso Israele viene ancora classificato come una democrazia liberale stabile, la famosa “unica democrazia in Medio Oriente”. 

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Oggi, tuttavia, Israele sembra destinato a diventare un altro mattone del fracassato muro della democrazia: Benin, Brasile, Bolivia, El Salvador, Ungheria, India, Italia, Mauritius, Filippine, Polonia, Tunisia, Turchia, Russia, Serbia – e l’elenco potrebbe continuare. L’Argentina potrebbe essere la prossima, e se Donald Trump venisse rieletto alla Casa Bianca si inaridirebbero anche gli Stati Uniti, il principale bastione della democrazia da oltre un secolo. Ma Israele non è semplicemente l’ennesimo bollitore di rane nel banchetto globale dell’autocratizzazione. Israele, io credo, è il luogo dove la battaglia globale per la democrazia sarà vinta o persa, poiché la democrazia liberale israeliana è allo stesso tempo la più vulnerabile e la più vitale. Perché vulnerabile? Perché Israele, rispetto a tutte le altre democrazie liberali, dispone del minor numero di controlli e contrappesi istituzionali: niente costituzione, niente bicameralismo, nessuna forma di elezione separata per i rami esecutivo e legislativo, nessun federalismo, nessuna supervisione o vincolo sovranazionale (regionale o internazionale). Non ha altro che il proprio sistema giudiziario: un tempo motivo di grande orgoglio, in particolare la sua Corte Suprema; oggi invece sotto attacco. Il governo autocratizzante del primo ministro Benjamin Netanyahu dispone di una solida coalizione (64 parlamentari su 120) in posizione vantaggiosa per varare le sue leggi antidemocratiche e anti-liberali, guidata da un amalgama perfettamente allineato di motivazioni dispotiche – personali, settarie, religiose e ultra-nazionaliste – che ammonta a una presa di potere vecchio stile. E poi, il governo israeliano ha avuto ampia opportunità di prendere esempio da alcuni leader che la vedono allo stesso modo e imparare da loro l’abc su “come svuotare una democrazia”. Tutto sembra pronto per bollire le rane. Ma gli israeliani sono tra le rane meno credulone e più rapide a saltare. Hanno avuto più di tre decenni per studiare da vicino il loro chef, del quale non si fidano più nemmeno i suoi più stretti alleati. E poi il ministro della giustizia Yariv Levin, abbastanza arrogante da non prendersi nemmeno la briga di leggere il manuale dell’autocrazia, ha deciso di far bollire immediatamente la pentola e di scoprire le sue carte dispotiche annunciando d’un botto lo scorso 4 gennaio il piano governativo di “riforma giudiziaria”. Nel giro di pochi giorni un’altra pentola, o meglio una app (WhatsApp), ha iniziato a ribollire di gruppi pro-democrazia che presto si sono riversati nelle strade sfidando temporali, canicola e idranti per otto mesi e oltre. Forse questa reazione è frutto della bimillenaria storia del popolo ebraico contrassegnata da traumi, o dell’era israeliana molto più breve ma non meno incasinata, con il suo vortice di contraddizioni: slancio nazionale/nazionalista e ambizione cosmopolita; culla socialista e mercato capitalista; pacifismo sognante e realismo bellicista; fanatismo e tolleranza; fondamentalismo religioso, spiritualità e risoluta laicità; continui appelli all’unità in mezzo al settarismo; oltre al continuo andirivieni tra patria e diaspora, tra un estremo e l’altro. O forse è l’atmosfera mediterranea. Come che sia, l’opinione pubblica israeliana ha dimostrato che i suoi leader autocratizzanti avevano ragione almeno su uno dei loro arroganti argomenti: la volontà democratica israeliana è più forte delle sue istituzioni. La prova è la pentola delle proteste. Le manifestazioni di massa a difesa della democrazia in Israele, ormai prossime alla loro 40esima settimana consecutiva, sono le più grandi e durature nella storia del paese. Ma potrebbero essere qualcosa di più. Secondo la mia analisi, le manifestazioni israeliane sono le pacifiche proteste di piazza più estese e impegnate che si siano mai viste a livello mondiale. Come possiamo affermarlo? In Why Civil Resistance Works, sulla base dell’analisi di circa 350 casi pertinenti Erica Chenoweth e Maria Stephan hanno proposto la “regola del 3,5%” come la quota minima di popolazione che protesta attivamente necessaria per assicurare un serio mutamento politico. Tuttavia, facendo riferimento alla “mobilitazione sostenuta”, Chenoweth e Stephan misurano solo il picco di partecipazione diviso per la popolazione del paese. Nei miei studi, propongo una misura diversa della portata e della diffusione di una protesta che mostra un impegno di massa duraturo. Misuro quello che chiamo “Indice di potenza della protesta” (PPi), moltiplicando il numero di giorni di protesta per la proporzione di persone che scendono in strada come percentuale media della popolazione complessiva. In base a queste misure, le manifestazioni a favore della democrazia in Israele hanno ampiamente superato la regola del 3,5%. Tutti i sondaggi indicano che circa un quarto degli israeliani ha partecipato alle proteste, portando a centinaia di migliaia il numero di persone scese in strada almeno una volta alla settimana, per più di otto mesi consecutivi a livello nazionale. Anche una stima molto prudente del numero medio di manifestanti settimanali (150.000 manifestanti su 9,4 milioni di cittadini per quaranta giorni) produce un PPi ben superiore a 60. In altri termini, le manifestazioni di massa in corso in Israele sono le più estese di sempre a livello mondiale. Superano tutte le altre proteste di piazza degne di nota, come le proteste a Hong Kong del 2019 (PPi 25), la “rivoluzione del potere popolare” nelle Filippine del 1989 (PPi 14), la “rivoluzione del 17 ottobre” 2019 in Libano (PPi 12), la rivoluzione egiziana del 2011 (PPi 10), le manifestazioni in Cile contro Pinochet (1988) e contro la disuguaglianza (2019), entrambe PPi 7, le proteste Black Lives Matter del 2020 (al massimo PPi 4,5) e molte grandi proteste di un solo giorno come la Marcia delle donne del 2017 a Washington (PPi 1,3) o la manifestazione contro la guerra in Iraq del 2003 a Roma (PPi 5). Tutto ciò indica che siamo allo zenit della democrazia israeliana, con entrambe le parti che hanno buone ragioni per nutrire grandi speranze e profonde paure. La coalizione autocratizzante può contare su strutture politiche favorevoli, circostanze interne ed esterne e sullo spirito di destra dei tempi. La resistenza democratica ha fatto appello all’ingegno e alla determinazione per mobilitare le masse come pochi o forse nessuno ha mai fatto finora. Per tornare all’apologo della rana, a quanto pare la pentola che bolle è molto profonda, ma le rane israeliane sono straordinariamente attente e agili. Chiunque vinca la battaglia in Israele invierà un segnale potente in tutto il mondo: o un regime autocratizzante può schiacciare anche le proteste più determinate, oppure la resistenza popolare può rovesciare anche gli autocratizzatori strutturalmente più avvantaggiati.
 (Da; Ha’aretz, 19.9.23)

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