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Corriere della Sera Rassegna Stampa
02.06.2017 Guerra dei sei giorni: informazione e disinformazione
Analisi di Yossi Klein Halevi, commento parziale di Raja Shehadeh, le omissioni di Bernardo Valli

Testata: Corriere della Sera
Data: 02 giugno 2017
Pagina: 16
Autore: Yossi Klein Halevi - Raja Shehadeh
Titolo: «Il trauma del ’67 inquieta Israele - Un giro con il tassista Sami In questo reticolo di strade non ritrovo la mia Palestina»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 02/06/2017, a pag. 16-17, con il titolo "Il trauma del ’67 inquieta Israele", il commento di Yossi Klein Halevi; con il titolo "Un giro con il tassista Sami In questo reticolo di strade non ritrovo la mia Palestina", il commento di Raja Shehadeh.

Il Corriere pubblica due articoli sulla Guerra dei sei giorni.

Quello di Yossi Klein Halevi è equilibrato ed espone la situazione drammatica in cui Israele si trovava nel 1967, circondato da nemici che già avevano mosso autentici atti di guerra.

L'articolo dell'arabo palestinese Raja Shehadeh, invece, utilizza il lessico tipico della disinformazione contro Israele (per esempio "coloni" e "occupazione"). L'articolo lamenta le difficoltà che incontrano gli arabi palestinesi a causa della presenza del muro (per lo più, in realtà, uno sbarramento difensivo fatto da reticolato e sensori), ma omette di scrivere il motivo perché il muro è stato edificato: il terrorismo arabo palestinese, grazie allo sbarramento oggi molto ridotto.

Pessimi i consigli di lettura del Corriere, tra cui spicca per negatività un testo di Ilan Pappé, una delle bandiere dei boicottatori di Israele, che vive in Gran Bretagna.

Su Repubblica oggi un intero inserto sulla Guerra dei sei giorni, a cura di Bernardo Valli, che non riprendiamo. Nonostante il grande spazio, Valli "dimentica" di sottolineare le cause del conflitto (ben elencate invece da Yossi Klein Halevi sul Corriere): l'aggressione araba ed egiziana soprattutto, la chiusura degli stretti di Tiran, la preparazione di un esercito in assetto di guerra spostato al confine con Israele e armato dall'Unione Sovietica, i proclami alla distruzione dello Stato ebraico, l'espulsione delle forze Onu di interposizione. Omettendo tutto questo, Valli fa passare il conflitto per un'aggressione israeliana, mentre si è trattato di una guerra condotta da Israele semplicemente per sopravvivere. In prima pagina Valli viene definito "un grande inviato": se si valutano i chilometri percorsi, sicuramente è vero, sulla qualità professionale il complimento è mal riposto. Trionfa l'ideologia anti-Israele, che toglie credibilità alla sua analisi.

Ecco gli articoli:

Yossi Klein Halevi: "Il trauma del ’67 inquieta Israele"

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Yossi Klein Halevi

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Nelle prossime settimane si prevedono accesi dibattiti attorno al 50° anniversario della Guerra dei sei giorni, che iniziò il 5 giugno del 1967, e durante la quale Israele sconfisse tre eserciti arabi per poi occupare la Cisgiordania, le alture del Golan e il deserto del Sinai. Ci saranno celebrazioni in Israele per commemorare la riunificazione di Gerusalemme, il cuore pulsante delle speranze e delle preghiere degli ebrei durante duemila anni di esilio. E ci saranno anche dibattiti e riflessioni sul futuro di Israele. Il ricordo di quella guerra del 1967, nella memoria della comunità internazionale, ha inizio con la vittoria di Israele e la straordinaria dimostrazione di valore militare da parte dell’esercito israeliano che avrebbero trasformato l’intero Medio Oriente. Tuttavia, per capire appieno l’impatto della guerra sulla psiche israeliana, occorre tornare ancora più indietro, alle settimane che precedettero il conflitto armato.

Mentre si interrogano sul futuro della Cisgiordania, gli israeliani ricorderanno non solo la vittoria del giugno 1967, ma soprattutto la sensazione dolorosa di estrema ansia e vulnerabilità che precedette la guerra. Conto alla rovescia Il conto alla rovescia verso le ostilità prese avvio a metà maggio, quando il presidente egiziano Gamal Abdul Nasser decretò la mobilitazione di decine di migliaia di soldati verso i confini di Israele. Nasser ordinò alle forze di pace delle Nazioni Unite di ritirarsi e, cosa sorprendente, l’Onu obbedì senza neanche convocare il Consiglio di sicurezza. Subito dopo Nasser ordinò il blocco navale degli Stretti di Tiran, la via marittima a sud di Israele, per poi firmare accordi militari con la Siria e la Giordania. Pretesto dell’aggressione araba non fu affatto l’occupazione territoriale, difatti la Cisgiordania era controllata dalla Giordania e Gaza dall’Egitto, bensì l’esistenza stessa di uno Stato ebraico. I leader arabi dichiararono che la distruzione di Israele era imminente. Tutti gli israeliani e gli ebrei spaventati e ansiosi in giro per il mondo rimasero scioccati nel rendersi conto che l’Olocausto non aveva segnato la fine del genocidio contro gli ebrei, ma che il pericolo si era semplicemente spostato dall’Europa al Medio Oriente. E ancor più scioccati furono davanti alla scoperta che Israele avrebbe dovuto affrontare quella minaccia da solo.

La straordinaria vittoria israeliana lasciò sbalordito il mondo intero, e persino gli israeliani stessi. Lo stato ebraico uscì dalla Guerra dei sei giorni con un territorio tre volte più grande rispetto alle dimensioni precedenti. Più tardi, Israele restituì all’Egitto il territorio più vasto conquistato, il deserto del Sinai, a seguito del trattato di pace tra i due Paesi siglato nel 1979. Per quel che riguarda le Alture del Golan, sottratte alla Siria, la maggioranza degli israeliani concorda nel ritenere che con ogni probabilità resteranno a far parte del territorio di Israele, sia per l’implosione dello Stato siriano che per la presenza dell’Isis e di altri gruppi terroristici operanti sul confine tra Siria e Israele. La Cisgiordania Il futuro resta invece incerto per la Cisgiordania, l’ultimo territorio conquistato nella Guerra dei sei giorni. Per Israele, è un dilemma assai spinoso. Se annette il territorio e assorbe al suo interno i diversi milioni di palestinesi che vi abitano, Israele sarà prima o poi costretto a scegliere se essere uno Stato ebraico o uno Stato democratico, due aspetti fondamentali della sua identità. Se concede ai palestinesi il diritto di voto, dovrà rinunciare alla maggioranza ebraica. Se nega il voto ai palestinesi, perderà la sua vocazione democratica. Ma il ritiro da quelle terre nasconde rischi non meno allarmanti. Il ritorno ai confini precedenti al ‘67 rischia di esporre l’area metropolitana di Tel Aviv alla minaccia degli attacchi missilistici palestinesi dalle colline della Cisgiordania. Gli israeliani temono inoltre che dopo il ritiro, il gruppo fondamentalista e terroristico di Hamas prenda il controllo del territorio, come già accaduto a Gaza. A quale Stato mediorientale assomiglierebbe allora la Palestina: alla Siria? al Libano? all’Iraq? alla Libia?

Gli israeliani sono tormentati da due incubi. Il primo è che non ci sarà mai uno Stato palestinese e lo stallo si protrarrà all’infinito. Il secondo è che ci sarà uno Stato palestinese e Israele si ritroverà a vivere, anche se in modo diverso, la precarietà e l’insicurezza del maggio 1967. Per coloro che appoggiano il ritiro, il ricordo della vittoria del giugno 1967 fornisce la prova schiacciante che persino nel peggiore dei casi Israele sarà in grado di difendersi. Per coloro che si oppongono al ritiro, il trauma del maggio 1967 resta un avvertimento che Israele potrebbe ritrovarsi nuovamente abbandonato e costretto ad agire da solo. Il futuro I pessimisti ammoniscono che ben poco è cambiato negli atteggiamenti del mondo arabo nei confronti di Israele. Avvertono che in un Medio Oriente in disfacimento, le garanzie internazionali sulla sicurezza di Israele come parte di un accordo per il ritiro dalla Cisgiordania non avranno alcun valore. Gli ottimisti, in Israele, controbattono che la Guerra dei Sei giorni ha contribuito a trasformare un piccolo Stato agrario e marginale di appena tre milioni di abitanti nella potenza tecnologica di oggi. Il Paese creato nel giugno ‘67 deve liberarsi dai traumi di quello del maggio ‘67.

La comunità internazionale, tuttavia, spesso rafforza le tesi dei pessimisti. La legittimità di Israele resta una questione aperta nel mondo islamico e sempre di più anche in alcuni settori dell’opinione pubblica occidentale. Quando gli israeliani si sentono assediati, di solito reagiscono irrigidendosi. Quando si sentono benvoluti, ecco che abbassano la guardia. Come quando, dopo la Guerra del Golfo del 1991 e la caduta dell’Unione Sovietica, decine di Paesi dell’Europa dell’Est, dell’Africa e dell’Asia riconobbero lo Stato ebraico e l’Onu si rimangiò la risoluzione sul sionismo come forma di razzismo. Israele reagì dando avvio al processo di pace di Oslo con i palestinesi. Il modello è chiaro: umiliate e isolate Israele, e il Paese ripiomberà nel terrore del maggio 1967. Accogliete Israele nella comunità internazionale e i suoi cittadini si sentiranno pronti ad agire con la fiducia dei vincitori, capaci di affrontare ogni rischio per la pace.

(Traduzione di Rita Baldassarre)

Raja Shehadeh: "Un giro con il tassista Sami In questo reticolo di strade non ritrovo la mia Palestina"

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Raja Shehadeh

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Ogni conflitto ha i suoi eroi non celebrati. In Palestina sono i tassisti. Dopo mezzo secolo di vita sotto l’occupazione, i miei nervi sono allo stremo. Non riesco più a sopportare l’ansia di non sapere cosa potrebbe comparirmi davanti, lungo la strada che sto percorrendo, siano essi altri automobilisti inferociti che convergono verso un ingorgo infinito mentre cercano di farsi largo nella coda di uno degli oltre cinquecento checkpoint sparsi nella piccolissima area della Cisgiordania, o quei commoventi ragazzini che si gettano contro il finestrino con la scusa di pulirti il vetro, e in realtà per chiedere una moneta. La condizione disperata di questi ragazzini, invariabilmente, mi fa odiare me stesso, obbligandomi a fare i conti con la misura del fallimento in cui è incorsa la mia società. E poi c’è l’oltraggio di dover aspettare il capriccio di un soldato poco più che adolescente. Ma forse la ragione principale per cui ho smesso di prendere la macchina per uscire da Ramallah è che le arterie costruite per collegare gli insediamenti dei coloni con Israele hanno sostituito vecchie e più familiari strade, rendendo questo reticolo così intricato e confuso che spesso mi perdo. E questo è l’oltraggio più grande di tutti: scoprire di essermi perso nel mio Paese. È per questo motivo che ho iniziato a chiedere a Sami di portarmi con il suo taxi. Paziente, assennato, mite e cortese, Sami è dotato anche di un’altra notevole virtù: la puntualità.

Qualche tempo fa è venuto a prendermi per portarmi all’aeroporto. Andavo a Londra, per una settimana, e il volo era alle cinque del pomeriggio. Una volta da Ramallah all’aeroporto ci si arrivava in cinquanta minuti. Con tutti i posti di blocco che hanno disseminato per la strada, sono uscito di casa a mezzogiorno, cinque ore prima della partenza. Dovevamo prendere l’autostrada a soli nove chilometri dalla mia casa di Ramallah. La strada, però, è stata interdetta da tempo al traffico palestinese. La deviazione ci ha fatto allungare il viaggio di quarantacinque minuti. Giunti lì, abbiamo scoperto che l’esercito israeliano aveva collocato una barriera di blocchi di cemento per impedire l’ingresso dei palestinesi sulla rampa. Mentre ce ne stavamo lì, indecisi sul da farsi, vedevamo le auto e i bus dei coloni sfrecciarci accanto sulle due corsie di quella bella stradona, del tutto indifferenti alla nostra miserevole condizione. Sami si è girato a guardarmi e con aria scoraggiata ha detto: «Non abbiamo altra scelta, dobbiamo provare con il check-point di Rantis».

L’unico problema è che solo i cittadini israeliani sono autorizzati a passare e né io né Sami lo siamo. «Se ci fermano, potrei finire nei guai per aver cercato di farti passare clandestinamente, e alla fine potrebbero arrestare anche te. Te la senti di rischiare?». «Non vedo alternative» ho risposto con tutta la calma e la sicurezza che sono riuscito a racimolare. Più ci avvicinavamo a Rantis, più sentivo crescere l’ansia. L’agitazione, a sua volta, mi faceva sembrare colpevole, come se fossi uno con una bomba nascosta da qualche parte. Mentre continuava a guidare, Sami ha cercato di distrarmi. Lui ci sa fare, con le storie; però molti dei suoi racconti di quel giorno c’entravano coi posti di blocco, un filone narrativo che in Palestina è praticamente la norma. E più lo ascoltavo, più la mia ansia si ingigantiva. «Senti questa» stava dicendo ora.

«Una volta stavo andando verso il ponte di Allenby. Quando finalmente è venuto il mio turno, un soldato israeliano si è avvicinato e mi ha chiesto se passavo spesso da lì. Ho risposto di sì. «“E al ritorno oggi passerai da qui?” mi fa lui». «Io gli ho detto di sì». «“Non metterti in coda, allora. Vieni dritto da questa parte”». «Io però al ritorno l’ho fatta tutta, quella fila lunghissima. E quando sono arrivato da lui, il soldato mi ha chiesto: “Perché non hai fatto come ti ho detto?”. Io gli ho risposto che rispetto sempre la coda. Lui allora mi ha chiesto il numero di telefono. Io gliel’ho dato. “Ti chiamo più tardi” ha aggiunto, apparentemente soddisfatto». «E infatti, appena sono tornato a casa mi ha chiamato e ha proposto di incontrarci. Sapevo cosa voleva da me e gli ho chiarito subito che non ero quel genere di persona. Diceva che poteva aiutarmi, che non avrei più dovuto fare la coda. In cambio, voleva i nomi di chi creava problemi nel quartiere di Gerusalemme dove abito. Gli ho risposto che non avevo bisogno del suo aiuto e ho riagganciato». Ho notato un’amarezza insolita nelle parole di Sami. «Sono così stufo di Gerusalemme. La gente qui è tutta da buttare, non se la meritano questa città grandiosa».

Quando abbiamo cominciato ad avvicinarci al check-point, ho notato che il terreno da entrambi i lati della strada era coltivato a ulivi. Come i coloni possano sostenere che in queste terre non viveva nessuno, prima del loro arrivo, è davvero stupefacente. Poi Sami ha rotto il silenzio. «Eppure va detto che alcuni di quei soldati che stanno ai check-point un cuore ce l’hanno. Uno ha visto che passavo i controlli, partivo e poi tornavo, più volte nello stesso giorno. Alla fine mi ha chiesto se non ero stufo di questa storia. Ecco, mi sono reso conto che gli dispiaceva davvero per me». «E tu cosa gli hai risposto?» «Non volevo che mi compatisse, così l’ho rigirata su di lui. Gli ho detto che se io non continuo a fare avanti e indietro, lui perde il lavoro». Eravamo quasi arrivati. Ho guardato Sami. Adesso sulla fronte gli vedevo un velo di sudore. Era in ansia anche lui, lo era stato fin dal principio, ma andava avanti. Abbiamo attraversato il posto di blocco in un silenzio solidale. Lui ha tenuto duro e continuerà a farlo, come fa da vent’anni a questa parte. E io, anch’io non posso permettermi di abbandonare la lotta, devo fare tutto il possibile per porre fine a questa occupazione prima che ci distrugga davvero, che ci distrugga tutti. ( Traduzione di Cristiano Peddis )

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