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Corriere della Sera Rassegna Stampa
01.02.2016 Siria: l'Iran invia 'volontari', la guerra si espande con l'aggressività di Teheran
Commenti di Davide Frattini, Guido Olimpio

Testata: Corriere della Sera
Data: 01 febbraio 2016
Pagina: 9
Autore: Davide Frattini - Guido Olimpio
Titolo: «La guerra dei due islam - L'attentato a Damasco, minaccia per gli anti-Assad»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 01/02/2016, a pag. 9, con il titolo "La guerra dei due islam", il commento di Davide Frattini; a pag. 27, con il titolo "L'attentato a Damasco, minaccia per gli anti-Assad", il commento di Guido Olimpio.

Ecco gli articoli:


Il mausoleo di Sayyida Zeinab a Damasco

Davide Frattini:  "La guerra dei due islam"

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Davide Frattini

Gli uomini appoggiano la testa contro la grata di argento che vela il sarcofago intarsiato quanto le loro lacrime. Piangono la nipote di Maometto e un massacro commesso nel 680 a Karbala nell’antico Iraq. Il dolore, la rabbia, l’odio, il desiderio di vendetta sono gli stessi di milletrecentotrentasei anni fa. Una guerra mai finita e che ancora si combatte per le strade di questo quartiere a sud di Damasco, dove la città diventa lentamente campagna. Il mausoleo di Sayyida Zeinab sta a dieci chilometri dalla capitale, dieci chilometri che le auto percorrono a tutta velocità senza fermarsi per paura dei cecchini. Da queste zone i ribelli e i miliziani dello Stato Islamico premono verso la roccaforte di Bashar Assad. Ed è per difendere la tomba e i due minareti coperti di mattonelle blu che i volontari sciiti hanno cominciato a sbarcare in Siria quando ancora il coinvolgimento dell’Iran non era ufficiale, quando i leader di Hezbollah smentivano di essere impegnati con le loro truppe irregolari nei combattimenti.

Gli autobus da Beirut, Teheran, Bagdad non scaricavano più i pellegrini. O meglio: dentro alle mura del mausoleo sono affluiti i pellegrini con i kalashnikov. Si sono proclamati difensori di uno dei luoghi più sacri per gli sciiti e l’hanno trasformato in un castello difficile da espugnare, sacchi di sabbia alle finestre, il filo spinato e i blocchi di cemento per proteggere anche il piccolo cimitero dove vengono seppelliti i combattenti. Sanno che i fondamentalisti sunniti dello Stato Islamico vogliono provare a colpire — com’è successo ieri — quel simbolo religioso: il Califfo e i suoi uomini vogliono ricordare ancora una volta di non riconoscere l’autorità e la discendenza di Ali, il fratello di Zeinab trucidato con i familiari a Karbala. Non che ce ne sia bisogno, la memoria degli sciiti è millenaria.

Quando i rivoltosi siriani hanno accerchiato Sayyida Zeinab tra il 2012 e il 2013 in Iraq è stata creata la Brigata Abu al-Fadl al-Abbas — intitolata all’altro fratello di Zeinab, anche lui venerato martire — per raccogliere i volontari da inviare in Siria. Il gruppo ha diffuso allora due video su Internet che rinforzano l’astio religioso. Il primo filmato mostra il tempio danneggiato da un colpo di mortaio, uno dei lampadari in cristallo rovesciato sul pavimento, le immagini accompagnate dalla minaccia «taglieremo le mani ai colpevoli». L’avvertimento diventa più preciso nel secondo spezzone: «Se riceveremo l’ordine, bruceremo Damasco per cacciarvi. Non permetteremo che Zeinab venga fatta prigioniera una seconda volta».

Così il primo soccorso dall’estero deciso dagli ayatollah non aveva come obiettivo principale quello di sostenere il regime di Bashar Assad. Gli iraniani non si fidavano del suo esercito, incapace secondo loro di difendere il mausoleo, e forse non si fidavano di un regime troppo laico: gli alauiti — la minoranza al potere — sono stati accettati, almeno dagli sciiti, come autentici musulmani solo nella metà degli anni Settanta. Nell’ufficio dell’uomo che comandava la sicurezza a Sayyida Zeinab nel 2013 mancava la foto del presidente Assad. Al posto del presidente siriano stava appesa la trinità religiosa e guerriera degli sciiti: l’ayatollah iraniano Ali Khamenei, il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah e Imad Mughniyeh, che del movimento libanese era lo stratega militare prima che gli israeliani lo eliminassero cinque anni fa.

Uno dei reclutatori iracheni aveva spiegato all’agenzia Reuters : «Vogliamo evitare quello che è successo da noi, quando la distruzione della moschea Imam al-Askari a Samarra (l’attentato è stato attribuito ad Al Qaeda) ha scatenato la carneficina tra sciiti e sunniti». Adesso lo Stato Islamico esporta quelle tattiche in Siria, cerca di trasformare in scontro religioso la lotta dei ribelli contro il clan di Damasco. Anche agli strateghi del Califfato interessa far dimenticare che questa guerra ormai lunga cinque anni è cominciata con le manifestazioni pacifiche del marzo 2011, quando insegnanti, impiegati, studenti universitari sono scesi in strada per chiedere le riforme.

Guido Olimpio: "L'attentato a Damasco, minaccia per gli anti-Assad"

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Guido Olimpio

A gli inizi del conflitto siriano, gli iraniani hanno giustificato il loro intervento al fianco del regime con uno slogan religioso: siamo qui per difendere il santuario sciita di Zeinab. Un pretesto, una scusa, una schermo, ma che simboleggia l’importanza del luogo sacro vicino a Damasco. Un valore che va ben oltre i confini della Siria. Per questo l’Isis ha deciso di colpirlo in modo devastante con un’azione articolata. Prima l’autobomba, quindi la coppia di kamikaze per essere sicuri di provocare un alto numero di vittime. L’attentato, nell’orrore quotidiano di questa guerra infinita, ha molti messaggi. Il primo concerne il momento: lo Stato Islamico agisce mentre a Ginevra la diplomazia internazionale cerca di lanciare — con poche speranze — una trattativa.

Per i jihadisti in nero è il modo per ribadire la lotta ad oltranza in un confronto più ampio. E questo porta al secondo elemento, la rivalità regionale che oppone i sunniti agli sciiti, battaglia che ha nella crisi siriana uno dei suoi campi. Il Califfo vuole spargere settarismo, intende cancellare fisicamente gli avversari, cerca di negare loro spazi e diritto di culto. Una risposta anche alla presenza massiccia di miliziani legati all’Iran: iracheni, afghani, libanesi diventati la carne da cannone agli ordini di Damasco. Il loro sacrificio — non senza ipocrisia — è dedicato a Zeinab. Il terzo aspetto è militare. Lo Stato Islamico, secondo fonti americane, ha perso in Siria il 5% di territorio e in Iraq il 40, è sotto pressione su molti fronti, anche se è ben lontano dalla sconfitta.

Al Baghdadi ha bisogno comunque di sorprendere, di dimostrare la sua abilità nel muovere e in profondità. Il massacro deve incutere paura tra i civili, sottolineare che il regime — nonostante il massiccio appoggio della Russia — non sarà mai al sicuro, incapace persino di proteggere siti di grande valore. Assad incassa il colpo, rapido nell’usare la strage per accusare anche gli altri oppositori di collusione con il terrorismo. E tutto questo in una fase critica. L’ennesima prova di come l’Isis, oltre ad essere una macchina di morte, sia una minaccia per quanti si sono ribellati al potere oppressivo del clan assadiano.

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