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Libero Rassegna Stampa
19.04.2024 Lo scatto celebrato e quello dimenticato
Commento di Carlo Nicolato

Testata: Libero
Data: 19 aprile 2024
Pagina: 13
Autore: Carlo Nicolato
Titolo: «Se un premio fotografico diventa propaganda»

Riprendiamo da LIBERO di oggi, 19/04/2024, pag. 13, con il titolo "Se un premio fotografico diventa propaganda", il commento di Carlo Nicolato. 

Carlo Nicolato
Carlo Nicolato

La "Pietà di Gaza", la foto di Mohammed Salem premiata con il World Press Photo, il più prestigioso per il fotogiornalismo a livello mondiale. Foto straordinaria, ma la scelta del soggetto non è casuale. Si tratta di un'altra forma (più raffinata) della propaganda palestinese. 
L'altra foto, quella dimenticata. Il corpo di Shani Louk portato in auto, dopo tutte le torture, dai terroristi di Hamas

“La pietà di Gaza”, come l’hanno immediatamente battezzata, ha vinto il World Press Photo 2024, il più prestigioso premio di fotogiornalismo a livello mondiale. La foto, diciamolo subito a scanso di equivoci, è straordinaria. Tecnicamente non particolarmente fortunata, ha tuttavia dalla sua uno dei pregi maggiori che un’immagine può avere, quella di raccontare una storia anche se di quella storia si vede solo una minima parte. E' una rappresentazione, quasi una interpretazione della realtà, ovvero qualcosa che si avvicina più all’arte che al fotogiornalismo. La foto, scattata dal reporter della Reuters Mohammed Salem, mostra una donna, Inas Abu Maamar, mentre culla il corpo di sua nipote di cinque anni, Saly, morta insieme a sua madre e sua sorella quando un missile israeliano ha colpito la loro casa a Khan Younis in ottobre. Di loro non si vede nulla, niente del viso, solo la mano della donna che regge la testa del corpo senza vita della bambina infagottata nel velo funebre. Tocca il cuore, se non si prova nulla guardando questa foto vuol dire che un cuore nemmeno l’abbiamo.

IL DUBBIO

Il dubbio tuttavia è che sia stata scattata proprio per tale scopo, per toccare le corde del dolore di chi la guarda e che la giuria del World Press Photo l’abbia scelta con la stessa finalità. Sia chiaro, non mettiamo in dubbio la veridicità dell'immagine, di storie come quella di Inas e Saly ce ne sono e ce ne saranno altre in questa guerra, quello di cui sospettiamo è che ci sia una certa dose di artificio, che la posa della “pietà” insomma non sia del tutto casuale. Non è peraltro la prima volta che accade. La stessa foto simbolo del fotogiornalismo di guerra, quella di Robert Capa che ritrae il miliziano della guerra civile spagnola nell’esatto istante in cui viene colpito a morte, è stata ciclicamente sospettata di montatura. Ci sono studi che lo dimostrano, come altri studi che dimostrano il contrario, e la verità probabilmente non la sapremo mai. Rimane la foto, straordinaria, che è diventata un simbolo. Dandola per autentica tale immagine aveva un pregio indiscutibile: il fotografo al momento dello scatto si trovava lì, in mezzo alla battaglia. E' una vera fotografia di guerra, fotogiornalismo puro, cosa che la “pietà di Gaza” non è.

L’ALTRA IMMAGINE

Sulle pagine di questo giornale qualche settimana fa abbiamo parlato di un’altra fotografia premiata in quel caso dalla Missouri School of Journalism, quella del corpo inerme della ragazza israeliana Shani Louk che viene portato via su un pick up dai terroristi di Hamas il 7 ottobre. Nel commentarla abbiamo sostenuto che non si sarebbe dovuto premiarla non tanto per la foto in sé, ma perché il fotografo che l’ha scattata, Ali Mahmoud, era “embedded” ai terroristi, quindi in qualche modo complice di un massacro che sapeva a priori sarebbe avvenuto. Tuttavia per autenticità la fotografia di quella ragazza uccisa e poi fatta a pezzi (riconosciuta solo da un frammento osseo del cranio) vale più o meno quella di Capa. Il reporter era lì, documentava l’istante del massacro. Insomma, nessuno mette in dubbio la bellezza della foto di Mohammed Salem, ma proprio perché “troppo” bella e molto poco fotogiornalistica, puzza lontano un miglio di propaganda. Una sola cosa hanno in comune tale fotografia e quella scattata il 7 ottobre, sia Shani Louk che la piccola Saly, così come sua madre e la sorella, non sarebbero morti se Hamas non avesse attaccato a tradimento i civili israeliani. Ma questo concetto nelle fotografie premiate da World Press Photo non passa, le scelte fatte dal prestigioso premio invece assecondano subdolamente un unico messaggio, e cioè che Israele è il solo responsabile di tanta sofferenza.

SCELTE CASUALI?

Tra le immagini premiate ce ne sono altre due relative allo scontro in Medio Oriente, citate con due menzioni speciali. Le fotografie in questione, sostiene il World Press Photo, «riflettono la gravità della guerra tra Israele e Hamas nel 2023, l’estrema sofferenza dei civili e il suo impatto politico globale». La prima è stata scattata il 7 ottobre, o i giorni successivi, e rappresenta un ufficiale delle forze di sicurezza israeliane che perlustra il sito del festival musicale Supernova alla ricerca degli effetti personali delle vittime dell’attacco di Hamas, la seconda mostra invece una residente di al-Zahra, cittadina nella Striscia di Gaza, che cammina tra le macerie delle case distrutte dagli attacchi aerei israeliani. La prima lascia totalmente indifferenti, scattata da troppo lontano, gli effetti personali che brillano al sole del tramonto si intravedono appena tra decine di bottigliette di plastica. «Se le tue foto non sono abbastanza belle», osservò una volta proprio Capa, «allora non sei abbastanza vicino». In questa foto non c’è nulla che giustifichi quello che invece viene mostrato con successo nella seconda, le case distrutte dai bombardamenti israeliani, le vite interrotte dei civili palestinesi testimoniate da qualche suppellettile e giocattolo tra le macerie. Una scelta casuale?

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