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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Libero Rassegna Stampa
20.03.2024 55 giorni nelle mani di Hamas
Cronaca di Andrea Morigi

Testata: Libero
Data: 20 marzo 2024
Pagina: 16
Autore: Andrea Morigi
Titolo: «I miei 55 giorni di orrori nelle mani di Hamas»

Riprendiamo da LIBERO di oggi, 20/03/2024, a pag.16 con il titolo "I miei 55 giorni di orrori nelle mani di Hamas", l'analisi di Andrea Morigi.

Princìpi non negoziabili» e Destra -
Andrea Morigi

Sapir Cohen, 29 anni, rapita da Hamas il 7 ottobre e rimasta nelle mani dei terroristi per 55 terribili giorni. Ora, una volta liberata, racconta tutti gli orrori che ha subito. 

Se li vedi involto eli senti parlare, gli ostaggi del 7 ottobre liberati dopo la prigionia e ospiti ieri della comunità ebraica milanese, capisci che anche chi ha avuto la vita risparmiata dall’odio islamico non è passato indenne da quella prova.
Si può perfino sorridere, come fa Sapir Cohen, una giovane israeliana di 29 anni, accompagnata dai rabbini Igal e Avraham Hazan, mentre racconta il suo rapimento durato 55 giorni. Del resto dimenticare di aver vissuto una tragedia di quelle proporzioni è umanamente impossibile. Allora devi condividerla, così diventa storia e memoria collettiva. $ l’unico modo per distinguere le vittime dai carnefici.
Ma devi stringere i denti per far sì che il coraggio prevalga sull’emozione e la speranza per coloro che da più di cinque mesi sono ancora nelle mani dei terroristi non si spenga. Quel giorno maledetto sono state uccise circa 1.200 persone, per la maggior parte civili atrocemente torturati e smembrati, e altri 253, fra i quali molte donne e bambini anche in tenera età, sono stati sequestrati.

PRESENTIMENTO

Chissà come, sei mesi prima Sapir aveva percepito un’ombra che la sovrastava e annunciava la tragedia.
Lo testimonia lei stessa: «Iniziavo ad avere il presentimento oscuro che qualcosa stesse per accadere. Pensavo a un malessere fisico, dapprima. Mi ero messa pure a pregare, ed era la prima volta che lo facevo nella mia vita, perché i medici mi avevano detto che la causa del problema era nei miei sentimenti piuttosto che in un virus che effettivamente mi aveva colpito».
Il giorno della strage, ricostruisce la donna in un crescendo di tensione, «iniziavano ad arrivare sui nostri cellulari i messaggi che avvisavano dell'assalto in corso ai kibbutz. E io ero a Nir Oz, a 15 km da Beeri, il primo obiettivo dell’attacco. Speravamo nell’intervento dei militari in nostra difesa. Invece al loro posto ha fatto irruzione il terrore, accompagnato dalle urla di Allah Akhbar! Abbiamo sentito gli spari e le grida di disperazione di chi era obbligato ad assistere a quel massacro. Di chi vedeva i propri cari massacrati dai proiettili. E a un certo punto la porta di casa è stata divelta». La sequenza drammatica ha raggiunto il suo culmine, ma non è terminata.
Quel giorno Sapir ha visto l’ultima volta il suo fidanzato Sacha Trufanov, ingegnere, ancora oggi prigioniero nell’inferno di Hamas, «picchiato a sangue e sbattuto con la faccia a terra». E intanto venivano portate via anche la mamma e la nonna di Sacha, Yelena Trupanov e Irena Tati, benché fossero trincerate in un rifugio.
Finché è toccato a lei, condotta a Gaza in mezzo a migliaia di quei «civili innocenti sostenitori dei terroristi che mi prendevano a calci e pugni senza pietà, senza sosta. E io non potevo far altro che proteggermi la testa con le mani, invocando Dio perché non mi lasciasse morire in quel momento». È stata ascoltata. L’hanno rinchiusa nei tunnel, invece di linciarla. E lì è rimasta per settimane fino al 30 novembre scorso, senza la possibilità di fuggire, senza sapere nulla dei propri cari. E con il timore di essere dimenticata e abbandonata o di rimanere uccisa dai bombardamenti. Ma continuando sempre a pregare, perché il Signore le desse la forza di sopravvivere fino al momento in cui sapeva che sarebbe comunque uscita da quell’incubo. Ecco che cosa significa davvero resilienza nelle prove. Sembra che tutto sia perduto, ma non ti arrendi. $ un’eroina, Sapir, di quelle capaci di ridare coraggio al popolo d’Israele e viene accolta con commozione e applausi scroscianti.
L’ombra non si è dissolta per tutti, però. «Molti altri sono ancora là, gli danno da bere solo acqua salata per distruggerli nel fisico».
E soprattutto per fiaccarli nel morale, nella prosecuzione della guerra psicologica, crudelmente mostrando loro le manifestazioni per la liberazione dei connazionali trasmesse dalla tv, per convincerli che Israele è in rivolta contro i suoi governanti e perciò nessuno andrà a riprenderli.

PREGHIERE

Ecco perché vanno riportati subito a casa. Anche se a caro prezzo. Sul tavolo delle trattative, ci vogliono l’abilità negoziale e la scaltrezza diplomatica, la minaccia militare e il fiuto politico. Eppure non bastano le risorse umane. Serve un aiuto soprannaturale, vuol dirci Sapir, che si rivolge al pubblico e fa recitare, a tutte le centinaia di persone venute ad ascoltarla, il salmo 27: «Il Signore è mia luce e mia salvezza», che fra i suoi versetti contiene anche i seguenti: «Se un esercito si accampasse contro di me, il mio cuore non avrebbe paura; se infuriasse la battaglia contro di me, anche allora sarei fiducioso» e «non darmi in balìa dei miei nemici; perché sono sorti contro di me falsi testimoni, gente che respira violenza». Purché Israele sia unito e nessuno rimanga disperso nelle mani dei nemici.

 

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