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Shalom Rassegna Stampa
14.07.2014 Reuven Feuerstein e la sua teoria dell'apprendimento
il ricordo di David Meghnagi

Testata: Shalom
Data: 14 luglio 2014
Pagina: 1
Autore: David Meghnagi
Titolo: «In memoria di Reuven Feuerstein»

Riprendiamo da SHALOM di luglio 2014, a pagg. 22-23, l'articolo  di David Meghnagi dal titolo "In memoria di Reuven Feuerstein"



David Meghnagi





Reuven Feurstein

Ho conosciuto Reuven Feuerstein nel meggio del 2005 in occasione di un seminario da lui tenuto a Roma nella sala della Protomoteca del Campidoglio. L’avevo personalmente invitato nell’ambito delle iniziative culturali scientifiche  promosse dal Colloquium “Tra Occidente e Oriente” di Roma Tre. Prima di lui erano stati nostri ospiti Abraham Yehoshua e Amos Oz. 
All’incontro realizzato in collaborazione con l’Ucei e il Municipio I di Roma,  c’erano oltre 400 persone: studenti, studiosi, operatori sanitari, psicologied educatori.
All’arrivo in taxi, un vigile al quale avevo chiesto come fare per utilizzare l’ascensore (Reuven aveva superato gli 80 anni), mi rispose sorridendo:  “Certamente. Con piacere. Quest’uomo lo conosco. Ha cambiato la vita della nostra famiglia. Mio figlio ha i suoi libri e tiene la sua foto in casa. Vorrei un autografo, così oggi dirò a mio figlio che l’ho visto di persona. Altrimenti non ci crederà”. Alla vista di Feuerstein che firmava un autografo, anche il personale si era fatto avanti. La foto con il comandante e altri vigili nel frattempo sopraggiunti, divenne un obbligo. Per onorare il nuovo arrivato, dalla folta barba, si decise farlo passare per la Sala Giulio Cesare, dove Veltroni stava discutendo con alcuni consiglieri. A quel punto nemmeno lui poté sottrarsi e fermarsi per sapere chi fosse.
L’incontro col pubblico fu un successo. Parlando in francese, Feuerstein presentò i capisaldi della sua teoria sui processi educativi, dei suoi rapporti con Piaget e di oltre mezzo secolo di studio e lavoro nel recupero dei bambini diversamente dotati. 
La sera andammo a cena in un ristorante del ghetto. Nonostante l’età, Reuven era un fiume un piena. Al tavolo con noi c’erano anche il suo medico personale, che era anche suo cognato, la figlia, una psicologia di formazione junghiana e il nipote, mia sorella Miriam. Attorno a noi si era raccolta molta gente. Il seminario non si era concluso. Si era semplicemente spostato in un altro luogo. Cantammo per tutta la sera, come fosse shabbath,  canti chassidici,  sefarditi e nord africani.
In seguito abbiamo continuato a vederci e sentirci. Ogni qualvolta andavo in Israele ci sentivamo e ci vedevamo immaginado e pensando a futuri progetti in israele, in Africa e in Europa. Rigorosamente shomer mitzwoth, Feurstein guardava al mondo come a una grande casa del Signore, da rendere più abitabile per tutti. Il fratello Shmuel, anche lui rabbino, è un acuto studioso di Socrate. Nel corso di una serata indimenticabile a Gerusalemme, la nostra conversazione a tre, ruotò attorno alla differenza “tra il conosci te stesso” socratico e l’appello biblico a vedere nell’altro l’immagine del divino, al ruolo della conoscenza e dell’azione nei due diversi sistemi, al concetto greco di conoscenza e quello rabbinico, al sapere greco e alla mitwah ebraica.
Nato nel 1921 da una famiglia di rabbini, il quinto di nove figli, Feuerstein crebbe in un ambiente sionista religioso, di ispirazione mizrahi. Alla vigilia dell’invasione nazista, Feuerstein era attivo a Bucarest come insegnante nei campi creati dal movimento sionista per la preparazione alla vita in Israele. In seguito aveva svolto la sua  attività in Transilvania con  i bambini scampati alle deportazioni naziste.
Internato e poi liberato, nel ’44 Feurestein raggiunse Israele. “In quel coacervo di esperienze quasi impossibili, di sforzi inauditi di sopravvivenza ma anche di immense speranze ed entusiasmo”, com’egli afferma, cominciò il suo lavoro coi bambini scampati allo sterminio nazista e poi, con l’esodo massiccio degli ebrei dai paesi arabi, con i bambini ebrei provenienti dai paesi arabi, dal Marocco, dalla Libia, dallo Yemen. Infine con gli ebrei di origine etiope giunti in Israele dopo terribili peripezie con l’operazione “Mosè”. 
Credere nella possibilità di cambiare il proprio destino, di inventare un futuro diverso nonostante il passato e le ferite del presente, essere per così dire, ottimisti, era una necessità di sopravvivenza che l’ebraismo ha fatto sua da sempre.  L’idea che un limite di partenza fosse insanabile, era un “lusso” che la società  israeliana non si poteva permettere.
Negli anni cinquanta non c’era persona in Israele che non avesse una tragedia personale da raccontare. Se non era egli stesso un sopravvissuto, i suoi parenti  erano scomparsi nei lager. Talora era l’intera comunità di origine ad essere stata sterminata. Poi vi erano i caduti in una sanguinosa guerra di sopravvivenza che gli israeliani per iniettarsi dell’ottimismo e percepirsi alla pari degli altri popoli e nazioni, da cui erano fuggiti, chiamavano “guerra di liberazione” (milchemeth ha-shichrur). Infine c’erano le masse di diseredati, sfuggiti ai pogrom dei paesi arabi, accampati nella baracche sino alla metà degli anni sessanta, perché il paese nonostante l’enorme sforzo fatto non poteva dare di più.
  Pensare che i traumi e i limiti di partenza fossero un limite invalicabile, equivaleva per un paese composto per oltre due terzi da immigrati di recente data, in fuga da un intero mondo, poteva essere una condanna irrevocabile.
La teoria della modificabilità cognitiva strutturale che Feurestein riprende da Vigotskij, uno dei più geniali pensatori ebrei sovietici, trovò in Israele un contesto particolarmente favorevole, per essere accettata e valorizzata. A Piaget, da cui poi prese le distanze, Feuesrtein si accostò negli anni cinquanta, dopo essere stato temporaneamente attratto dall’opera di Jung, quando va in Svizzera per essere curato dalla tubercolosi contratta lavorando con i bambini scampati ai lager.
Con la sua sfida Feuerstein metteva in discussione i paradigmi di un certo modo  di concepire l’insegnamento, la formazione e la riabilitazione. L’essenziale della sua teoria era maturato lavorando nel laboratorio di psicologia a Gerusalemme, a contatto con l’esperienza educativa del movimento kibbutziano, improntata alle esperienze di Maria Montessori, di Gustav Wineken e di Berthold Otto.
  L’accettazione delle disabilità per Feuerstein non poteva essere passiva. Doveva al contrario tradursi in ricerca di tutti i mezzi per ridurre lo svantaggio iniziale o successivo. L’obiettivo non era di offrire un ghetto dorato al bambino diversamente abile, rimandando il dolore più grande ad una fase successiva quando non avrebbe potuto più contare sui genitori e sull’ambiente circostante.
Nessuna rassegnazione dunque, ma la volontà di fornire tutti i mezzi possibili per aiutare i bambini a colmare i ritardi di partenza, siano essi dovuti a cause culturali-  ed è quanto più spesso accade dietro l’apparente oggettività di molti test che sembrano costruiti più per confermare e legittimare i pregiudizi di chi li somministra, che non ad aiutare il ragazzo a colmare le lacune di partenza; siano essi ascrivibili alla presenza di uno svantaggio di natura genetica, come accade per esempio con i bambini down che seguiti adeguatamente riescono a raggiungere risultati un tempo impensabili.
Il programma di valutazione della propensione all’apprendimento, elaborato da Feuerstein, parte dal presupposto che le difficoltà possano essere almeno in parte superate, se si individuano le vie per arrivarci. Il livello di partenza può essere basso. Ma anche nei casi più gravi si possono formare e consolidare delle strutture cognitive nuove atte ad affrontare la realtà in modo più adeguato. I risultati dei test possono risultare bassi per i motivi più diversi: la persona esaminata può essere riluttante a rispondere, oppure è stanca e demotivata. Il compito svolto può avere delle caratteristiche tali da essere svalutato, oppure è stato formulato con un linguaggio che non viene capito. Il problema non riguarda solo chi parte svantaggiato per un handicap fisico o genetico, vale anche per chi parte svantaggiato culturalmente. 
Il modello di valutazione per essere realmente creativo e di supporto ai bisogni di uno giovane che parte svantaggiato,  non deve  limitarsi ad offrire un quadro della situazione cognitiva di partenza. Deve anche fornire delle indicazioni sulla possibilità di evoluzione del ragazzo, e sulle mediazioni necessarie per programmare un adeguato piano di recupero. Deve tenere conto delle condizioni in cui il test è svolto e dei processi attraverso il quale si raggiunge un risultato, e non al risultato in sé. Se si guarda ai problemi in questa ottica cambia anche la valutazione dei risultati conseguiti.  
Scomponendo il processo cognitivo, lavorando sui processi di apprendimento e non solo sui contenuti dell’apprendimento, cercando percorsi alternativi, quando la via tradizionale appare bloccata, i bambini che hanno un forte svantaggio di partenza, indotto da cause culturali o genetiche possono progredire nell’acquisizione di capacità cognitive e mentali ben oltre le aspettative ottimistiche di un recente passato. Per raggiungere lo scopo, occorre considerare i punti deboli di partenza non come un limite invalicabile, ma come una difficoltà con cui fare i conti, imitando la natura, dandole una mano attraverso tutte le mediazioni possibili: quella dei genitori che possono facilmente apprendere tutta una serie di tecniche ed esercizi per aiutare i loro figli, la mediazione degli insegnanti di supporto che non devono essere  sostitutivi all’insegnante di classe, quella degli allievi più avvantaggiati che con l’aiuto di insegnanti più consapevoli e competenti, possono utilizzare il gruppo classe come elemento di sostegno ed aiuto e non di esclusione. 
La valutazione precoce del danno può essere un fatto positivo se  orienta verso la ricostruzione delle strutture carenti, o mancanti. Può diventare un colpo di grazia se è inscritta nella logica del dato ineluttabile.

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