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Shalom Rassegna Stampa
22.10.2013 Un viaggio alla riconquista dell’anima perduta
intervista di Alessandra Farkas a Curt Leviant

Testata: Shalom
Data: 22 ottobre 2013
Pagina: 34
Autore: Alessandra Farkas
Titolo: «Un viaggio alla riconquista dell’anima perduta»

Riportiamo da SHALOM di ottobre, a pag. 34, l'intervista di Alessandra Farkas a Curt Leviant dal titolo " Un viaggio alla riconquista dell’anima perduta".


Alessandra Farkas, Curt Leviant, L'uomo che pensava di essere Messia (ed. Giuntina)

NEW YORK – Lo scrittore americano Curt Leviant, uno dei massimi esponenti della letteratura ebraica contemporanea (‘La ragazza Yemenita’ e ‘Diario di un’adultera’) nonché illustre traduttore di classici in lingua Yiddish, torna nelle librerie italiane con ‘L’uomo che pensava di essere il Messia’(edito in Italia dalla Giuntina di Daniel Vogelmann). Già best-seller quando uscì in America nel 1990, il libro narra la profonda crisi spirituale di Rabbi Nachman di Bratzlav, famoso maestro chassidico pronipote di Israel ben Eliezer, il santo Baal Shem Tov, fondatore del chassidismo. Un’inaspettata tentazione nelle sembianze di una giovane non ebrea suscita in Nachman un desiderio irrefrenabile che gli fa smarrire la conoscenza dell’alfabeto ebraico, fondamento di tutto il suo sapere e dell’intera creazione. E’ allora costretto ad allontanarsi da Bratzlav per recuperare le sue amate lettere e insieme la capacità di sentire il sussurro segreto di Dio, anch’esso improvvisamente svanito. Da Vienna, dove stringerà amicizia con Beethoven, a Istanbul fino in Terra d’Israele, Nachman intraprende un viaggio alla riconquista della propria anima. “E’ stata la fortuna, mia migliore alleata, a far arrivare anche questo libro in Italia”, racconta a Shalom Leviant, seduto nel luminoso salotto della sua casa di Edison, in New Jersey, dove la moglie ungherese Erika, farmer biologica e cuoca eccezionale, è dedita ai fornelli. “Qualche tempo fa, mi recai a Firenze con la famiglia per far visita a mia nipote che studiava arte all’università. Decidemmo di incontrarci da Ruth, ristorante kasher vicino alla Sinagoga, dove iniziai a chiacchierare con il proprietario e poeta Simcha Jelinek. Quando seppe che ero uno scrittore, Simcha mi mise in contatto con Vogelmann alla Giuntina. Ed eccoci ora qui a parlare del mio libro”. Il suo racconto è ambientato nel 1800. Perché questa data? “Come spiego nel libro, anche se un numero dei gentili, il 1800 è un numero e un anno perfetto perché pregno di un significato ebraico: 1800 è cento volte 18 e 18 è il numero ebraico che corrisponde a chai ovvero ‘vita’. Quindi cento volte vita e cento anni dalla nascita del bisnonno di Rabbi Nachman, Israel ben Eliezer, il santo Baal Shem Tov, fondatore del cassidismo. E poi volevo far incontrare Nachman con Beethoven”. Nachman è convinto che Beethoven abbia un’origine ebraica? “Anni fa, durante l’annuale kermesse di concerti estivi di Tanglewood, Massachusetts, incontrai Leonard Bernstein. ‘T’án ‘yr rʻdn yyidys?’ (Parli Yiddish?) gli chiesi e lui rispose di sì. Gli domandai allora se volesse leggere il mio libro in cui Rabbi Nachman incontrava Beethoven. ‘Non sai che Beethoven era un antisemita convinto?’, mi disse. Gli feci notare che uno degli amici del grande compositore tedesco fu l’ebreo Ignaz Moscheles e Bernstein ribatté che Karl Lueger, famigerato sindaco di Vienna ispiratore di Hitler, pur avendo amici ebrei, era un noto antisemita famoso per la sua frase ‘Sono io che decido chi è ebreo e chi non lo è’”. I suoi romanzi sono tradotti in tanti paesi quali Francia, Spagna, Grecia, Romania, Argentina, Israele. “E anche Germania ma non nascondo che potrei benissimo farne a meno perché non posso dimenticare l’orrore dell’Olocausto”. Anche l’Italia di allora non agì correttamente. “Fino all’arrivo dei tedeschi, gli italiani non avevano mai mandato alcun ebreo a morire. Anzi, molti innocenti si sono salvati grazie all’aiuto degli italiani, come alcuni miei amici. E a proposito dell’Italia, vorrei ringraziare la mia bravissima traduttrice Rosanella Volponi. Ho sempre l’impressione che la figura del traduttore sia completamente ignorata nelle recensioni letterarie in Europa. E’ un atteggiamento sbagliato perché è il traduttore che fa rinascere un libro in un’altra lingua”. Esiste oggi una letteratura ebraica americana? “Certo. Non a caso a breve uscirà anche un’antologia che raccoglierà le opere di autori ebrei-americani come me. Non conosco gli altri nomi della raccolta però posso affermare senza averli letti che la mia voce si distingue dal coro”. In che senso? “L’intima conoscenza della cultura Yiddish e dell’antichissima lingua, religione, musica e letteratura ebraiche mi differenzia da autori quali Philip Roth e Paul Auster che definirei solo per metà ebrei. Io sono una sorta di ultimo dei moicani anche perché, come avviene per la Torah da migliaia di anni, i miei libri nascono tutti manualmente e non dal ticchettio meccanico di una macchina da scrivere o tastiera di computer”. Che cosa unisce un ebreo ortodosso di Gerusalemme a uno laico di Milano o New York? “Tra noi ebrei esiste un legame interiore profondo che trascende confini e ostacoli linguistici. A Roma, quando ho chiesto dove fosse la Sinagoga, due uomini mi hanno risposto ‘Shabbat Shalom’ abbracciandomi senza conoscermi. In un negozio di libri vecchi a Bellagio ho incontrato lo sguardo dell’artista argentino Gabriel Cantor, oggi mio amico. Senza parlare, semplicemente guardandoci dritti negli occhi, abbiamo capito entrambi di essere fratelli”.

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