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Shalom Rassegna Stampa
21.10.2013 Ebrei di Libia: dopo la Shoah i pogrom
commento di David Meghnagi

Testata: Shalom
Data: 21 ottobre 2013
Pagina: 1
Autore: David Meghnagi
Titolo: «Ebrei di Libia: dopo la Shoah i pogrom»

Riportiamo da SHALOM di ottobre, a pag. 32, l'articolo di David Meghnagi dal titolo "Ebrei di Libia: dopo la Shoah i pogrom ".


David Meghnagi              Ebrei tripolini

Il campo di Giado, situato a 235 km a sud dalla Tripolitania, fu il peggiore dei campi di concentramento italiani in Africa settentrionale. In origine, una vecchia caserma italiana, fu il più spaventoso dei campi di detenzione e di lavori forzati, dove furono rinchiusi gli ebrei libici. Pur registrando la presenza di qualche soldato tedesco, il campo fu interamente gestito dagli italiani: militi fascisti e carabinieri, con l'ausilio di ascari e poliziotti arabi. Dei 2584 ebrei –di cui quarantasette italiani-, che erano stati deportati dalla Cirenaica, per ordine di Mussolini nel febbraio del 1942, sei mesi dopo, 560 erano morti per tifo, fame e stenti e se la guerra nel frattempo non fosse finita, sarebbero morti quasi tutti. All’arrivo delle truppe britanniche, 480 internati erano gravemente malati e come ricordano alcuni sopravvissuti, prima della liberazione gli internati vissero nel terrore di una fucilazione in massa.
La sconfitta delle potenze dell’Asse a El Alamein rappresentò la fine di un incubo. Nei mesi della rapida e devastante avanzata tedesca in Unione Sovietica, di fronte alla prospettiva di un attacco concentrico italo tedesco dal Caucaso e dalla Libia, lo stato maggiore inglese aveva preso in considerazione l’idea di un ritiro momentaneo delle truppe britanniche dal Vicino Oriente. Per gli ebrei del Vicino Oriente e dell’Africa settentrionale sarebbe stata la fine.  Il numero degli ebrei in tutto il mondo arabo era stato meticolosamente calcolato. Le camere a gas mobili erano pronte ad Atene e potevano contare sulla collaborazione fattiva del Muftì per essere utilizzate a Tel Aviv, Gerusalemme e in ogni altro luogo della regione. Un assaggio di quel che sarebbe potuto accadere fu il sanguinoso pogrom di Bagdad seguito al colpo di stato filonazista di Rashid Alì nel 1941.

Italo Balbo che, nel gennaio del 1939, aveva suggerito di “attutire” l’impatto della legislazione razzista nel paese poiché gli ebrei erano comunque già dei fantasmi morenti che non comportavano pericoli per la metropoli e potevano essere per le loro competenze utili, affermava ora “che gli ebrei” sembravano morti. In realtà “non morivano” “mai definitivamente”.

L’ingresso delle truppe britanniche a Tripoli fu accolto dagli ebrei con gioia. Coloro che erano stati deportati perché avevano la nazionalità francese, potevano finalmente fare ritorno. La speranza era che anche quelli con passaporto inglese e di cui si erano perse le tracce potessero presto fare ritorno. 

Internati nei campi di Civitella, in Val di Chiana (Arezzo), Civitella del Tronto (Teramo) e a Carpi (o Fossoli), in provincia di Modena, gli ebrei che avevano la cittadinanza inglese, furono in seguito deportati a Bergen Belsen, Biberach e Innsbruck da dove poterono fare ritorno solo dopo la fine della guerra. 

Nella primavera del ’40, 302 ebrei, in fuga dalla Germania e dall’Austria, avevano fatto tappa a Bengasi nella speranza di poter aggirare il blocco britannico in Palestina. Allo scoppio della guerra, erano stati trasferiti a Napoli nel carcere di Poggioreale e poi nel campo di Ferramonti. Dei frammenti di questa vicenda, li avevo ascoltati in casa. La mia era una memoria della memoria, che da ragazzo mi tormentava. “Dov’erano finiti?”, mi chiedevo angosciato. Fantasticando, li immaginavo in Israele insieme agli ebrei, che in massa avevano coronato i loro sogni trasformando il dolore e l’esilio  in esodo.

L’eco di quanto era accaduto a Giado nel corso della guerra, raggiunse rapidamente gli ebrei della Tripolitania. La comunità si mobilitò. I malati gravi furono trasferiti negli ospedali, i sopravvissuti, per quanto soli nel loro dolore, furono fraternamente assistiti.  L’alba di un nuovo mondo sembrava profilarsi all’orizzonte. I movimenti giovanili sionisti avevano ripreso le loro attività. L’incontro con i soldati dell’Yshuv incorporati nell’Ottava armata britannica, riuniti in preghiera nella solenne cerimonia del Kol Nidre’, era la realizzazione di un sogno. Nell’immaginazione collettiva, esisteva un luogo in cui gli ebrei camminavano a testa alta, non più umiliati, aggrediti e disprezzati. 

Fu purtroppo una parentesi breve. Due anni dopo la liberazione, nel 1945 un pogrom sanguinoso e inatteso sconvolgeva le esistenze.  Il ricordo angosciante dei conoscenti sgozzati e dei neonati con la testa spaccata contro i muri, divenne lo spartiacque col passato. Il sanguinoso pogrom si era consumato quando la guerra era finita e la speranza di una vita diversa si era profilata all’orizzonte.

Le truppe britanniche, accolte due anni prima con gioia, erano intervenute solo al terzo giorno, quando il peggio era già accaduto e l’urto violento contro il quartiere ebraico eroicamente respinto.

Per un processo di spostamento e di condensazione psichica, nella memoria collettiva il nuovo trauma assunse il significato di una frattura psichica radicale con il passato. Un legame plurimillenario con la realtà del paese si era definitivamente spezzato. E se non fosse stato per il blocco britannico all’immigrazione in Palestina, imposto nel ’39, quando più grande era il pericolo per l’intero ebraismo, gli ebrei vi si sarebbero trasferiti in massa, come poi accadde, appena fu possibile.

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