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Shalom Rassegna Stampa
22.07.2009 Iran, prevenire è meglio che difendersi
L'analisi di Angelo Pezzana

Testata: Shalom
Data: 22 luglio 2009
Pagina: 27
Autore: Angelo Pezzana
Titolo: «Il prezzo da pagare per essere liberi è vivere senza illusioni»

Dal numero di luglio-agosto di SHALOM, riprendiamo l'articolo di Angelo Pezzana,dal titolo " Il prezzo da pagare per essere liberi è vivere senza illusioni" a pag.27

Fra coloro che si augurano la scomparsa di Israele, non ci sono soltanto gli imitatori del grossolano – ma pericoloso per l’enorme potere che rappresenta – Mahmoud Ahmadinejad, anzi, i più temibili si trovano fra quelli che si mettono al riparo della “critica lecita”, noi critichiamo il governo, mica lo Stato, come sempre sostengono. Ma poi il gioco non regge, perchè è proprio la delegittimazione di quest’ultimo cui mirano, non essendogli mai andato bene nessun governo dal 1948 ad oggi, non importa di quale colore fosse. Perchè una parte del mondo che definiamo civile, sia così morbosamente ostile agli ebrei, fino al punto di non sopporarne l’esistenza in uno Stato proprio, è una domanda che richiede più di una risposta. Mi accontento qui di notare quanto il richiamo all’antisionismo rappresenti ancora una valida difesa per gli antisemiti che rifiutano di apparire tali,  malgrado quanto si sia detto e scritto in questi ultimi decenni, per sottolinearne il sostanziale identico contenuto ideologico. Noi che giudichiamo la situazione mediorientale dall’Europa, abituati come siamo a vivere in paesi non più attraversati da guerre fratricide, sostituite da pochi conflitti locali di breve durata, sovente ci chiediamo come Israele abbia avuto la forza di diventare quella magnifica nazione che è, dovendosi, giorno dopo giorno,  difendere da continue guerre, dalle invasioni degli stati confinanti agli attacchi terroristici.  La spiegazione credo debba essere cercata nel fatto che gli israeliani, a differenza di noi europei, conosce esattamente ciò che li riguarda da vicino, sanno con chi hanno a che fare, conoscono le loro forze e quelle di chi invece vorrebbe sradicarli dalla carta geografica. E amano talmente la pace da aver costruito, pur attraverso difficoltà e contraddizioni, uno Stato che di militaresco, nel senso tradizionale del termine, non ha nulla. La sola presenza, un po’ ovunque nei luoghi della vita civile, di militari, in qualsiasi altro paese ne avrebbe condizionato l’immagine se non la sostanza. Non in Israele, dove l’idea di difendere il proprio paese è qualcosa che fa parte della vita quotidiana, appartiene a tutti, perchè tutti sanno che senza difesa sarebbe la fine. Certo, c’è la coscienza che questo può significare dolore e lutti, ma è il prezzo da pagare per essere liberi, in attesa che la parole “pace” abbia la meglio sull’odio. Gli israeliani credono nei miracoli, come diceva David Ben Gurion, ma sono anche realisti, sanno come ragiona l’Occidente, non si fanno quindi illusioni. E li consola poco che Hillary Clinton dichiari che se Israele dovesse subire un attacco atomico dall’Iran, il governo americano interverrebbe prontamente. L’esperienza degli ultimi sessant’anni, aggiunta ai millenni precedenti, ha insegnato che nel momento nel quale i fatti sono determinanti, le parole lasciano il tempo che trovano, perchè un intervento successivo all’attacco non salverebbe lo Stato ebraico dalla distruzione. Occorre agire prima, distruggere, anche attraverso misure estreme se fosse necessario, qualsiasi minaccia. Non supiscono quindi le parole pronunciate da Ehud Barak, nella sua qualità di Ministro della Difesa, e da Bibi Netanyahu, ai vari corpi militari di Tzahal riuniti il mese scorso per esercitazioni nel deserto del Negev.

“I prossimi conflitti saranno molto più seri di quello che c’è stato a Gaza nello scorso gennaio”, ha detto Barak, e “ ci saranno pericoli più grandi, dovuti al carattere non convenzionale della guerra”. Ma ha anche aggiunto “ quando il momento arriverà, voi sarete pronti per affrontarlo e saprete come vincere”. Tutto l’opposto di quanto avviene in Europa, dove, tranne alcune voci, poche e isolate, l’opinione pubblica viene tenuta all’oscuro di quello che avverrà tra pochi decenni. L’ha raccontato in termini molto chiari Walter Laqueur, storico israelo-americano, autore di una importante “Storia del Sionismo”, ed esperto di nazifascismo e storia europea, nel suo recente libro “ Gli ultimi giorni dell’Europa”, dall’eloquente sottotitolo: Epitaffio per un vecchio continente (Marsilio ed).

Attraverso agili capitoli, Laqueur ci informa, con numeri,dati,statistiche ufficiali, che tra qualche decennio l’Europa come la conosciamo oggi non ci sarà più, sostituita da un’altra popolazione, divenuta europea ma musulmana. Eppure questo futuro prossimo viene evidentemente giudicato una non-notizia, visto che non ne parla quasi nessuno, e chi si azzarda ad affronatarlo viene guardato come se fosse un po’ matto. Laqueur, mentre analizza quanto succederà in tutti i paesi europei, dell’Italia ci dice che sarà uno dei paesi ad avere un destino fra i più drastici: se oggi siamo circa 60 milioni, nel 2050 saremo 37 milioni, per essere infine 15 milioni nel 2100. Numeri che si riferiscono ai cittadini italiani europei non musulmani. Va aggiunto che tutte queste previsioni non includono le immigrazioni a venire. I numeri riportati tengono conto sia delle nascite, in proporzione molto più alte nella parte islamica, che del calo della fertilità, che si registra un po’ ovunque, tranne che nelle regioni più vicine all’ Europa, come il Nord Africa, l’Africa sub-sahariana e il Medio Oriente. Questi probelmi, che in Israele vengono analizzati seriamente –sono noti gli studi del prof.Sergio Della Pergola- qui sembrano non avere diritto di cittadinanza. Da noi, l’argomento principe dei nostri media è il multiculturalismo, peccato che non ne vengano fatti conoscere i risultati.

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