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Shalom Rassegna Stampa
16.06.2007 Anche a teatro c'è chi ha paura della propria identità
il caso di Habima in tourée in Italia

Testata: Shalom
Data: 16 giugno 2007
Pagina: 29
Autore: Angelo Pezzana
Titolo: «Anche a teatro c'è chi ha paura della propria identità»

Da SHALOM n°6, giugno 2007, riportiamo l'articolo di Angelo Pezzana sulla tournée in Italia del teatro Habima.

 

Una tournée in Italia di Habima, il teatro nazionale d’Israele, è un avvenimento importante per due ordini di motivi, non diversi fra loro per importanza. Il primo è il fatto artistico in sè, Habima è una compagnia teatrale di grande livello, con attori e registi di fama internazionale, giustamente famosi non solo in terra d’Israele. Il secondo, si chiama “hasbarà”, perchè ogni occasione per evidenziare lo Stato ebraico nel suo aspetto culturale è uno degli strumenti più utili per rivelarne la natura di “paese normale”, fatica in genere improba quando gli argomenti a disposizione si chiamano, non per scelta di Israele, guerra, missili kassam, terrorismo, attentati e via dicendo. Ottima occasione, quindi, l’arrivo nei teatri italiani di Habima con lo spettacolo intitolato “War” diretto dal regista Han Ronen. E’ vero che all’inizio ci aveva lasciato perplessi la scelta del testo di un regista svedese, Lars Noren, decisione curiosa che priva lo spettatore non israeliano della possibilità di conoscere la produzione di autori nazionali di sicuro interesse. Rappresentare un autore svedese in Israele ha senso, girare l’Europa da parte di Habima con un testo svedese, ne ha, secondo il nostro modesto parere, molto meno. Pazienza, ci siamo detti, almeno, se è stato scelto, avrà pure un suo significato, anche se il titolo “War”, guerra, non ci aveva tranquillizzato. Temevano il solito testo pacifista, pieno di buoni sentimenti, di quelli dove chi non recita la parola pace ogni piè sospinto peste lo colga. I nostri timori, a visione avvenuta, si sono dimostrati, ahimè, profetici. L’azione si svolge in un paese che non viene mai nominato, subito dopo la fine di una guerra, in una specie di accampamento-casa, all’aperto e diroccato, dove si ritrova ciò che resta di una famiglia. L’unica traccia che ci permette di situare il racconto in tempi recenti è una bottiglia di Coca Cola vuota e qualche allusione a Disneyland nel dialogo, altrimenti il testo, pieno di riferimenti a “campi”, torture,massacri, eliminazioni si sarebbe potuto interpretare come l’incontro fra i sopravvisuti di un qualche sterminio di non difficile collocazione. Ma c’è di più, il padre, creduto morto ma che ricompare e racconta della vita nel campo, ad un certo punto dice che, per ripararsi dal freddo, era andato nell’ufficio del capo e aveva strappato, per accenere un fuoco, delle pagine dalla Bibbia ( così era scritto nella traduzione luminosa che scorreva in alto sul palcoscenico), ma noi abbiamo sentito chiaramente l’attore dire  “Tanach” e non altra parola. E’ lecito chiedersi chi potesse mai essere il capo del “campo”, se nel suo ufficio c’era una copia del Tanach ? E’ vero che la guerra di cui al titolo era stata combattuta fra forze di vari stati, erano molti i riferimenti a russi e americani, ma questo non faceva che aumentare la confusione nello spettatore che non capiva più nulla di quello che stava succedendo, già travolto per conto suo da una storia a metà tra il “portiere di notte” della Cavani, di non proprio lodata memoria, e una moderna pièce dove linguaggio e situazioni erano più che altro mirati a colpire lo spettatore per la loro volgarità più che il contenuto. Ma non è quest’ultima caratteristica ad aver lasciato su di noi un senso di malessere misto a fastidio. Ci siamo chiesti se, alla base della scelta di Habima di girare l’Europa con un testo svedese e  con quei contenuti, non fosse l’ennesima dimostrazione che, fuori da Israele,  applausi e consensi, si ottengono solo se si offre un prodotto in linea con lo stile pregiudizialmente ostile che spadroneggia nella cultura europea maggioritaria. Gli scrittori che vengono tradotti sono quelli che criticano il proprio paese facendo finta di criticarne il governo, cosa ovviamente più che lecita, in tutte le interviste che rilasciano o negli articoli che scrivono, senza averne realmente bisogno, vista la qualità dei loro libri. Ma lo fanno ugualmente, perchè così va il mondo, altrimenti non sei nessuno. E questo vale per i famosi come per gli esordienti. La scelta di Habima di non rappresentare un autore israeliano ma ricorrere ad uno svedese, anche se giudicato dalla critica ufficiale “ il più grande drammaturgo vivente” , si spiega solo nel fatto di voler piacere a tutti costi, dal volersi parare in anticipo dalle critiche che abitualmente si abbattono su ciò che reca il marchio “ Israele”. Se l’autore del testo è svedese, allora in gioco è solo più la bravura degli interpreti, e quella la si difende facilmente. Per concludere, una domanda, che ci pare legittima, a chi organizza le tournée all’estero del teatro nazionale israeliano: è davvero una pretesa azzardata che Habima rappresenti autori israeliani ? non importa quale ideologia esportino, non ne facciamo un problema di parte politica, ma che almeno ci facciano conoscere quel che si produce in Israele. E’ chiedere troppo ?

 

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