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Shalom Rassegna Stampa
29.11.2006 La distruzione di Israele inaugurerebbe un'era di barbarie
ma non cancellerebbe il popolo ebraico: Giorgio Israel e Victor Magiar rispondono a un terribile ed attuale quesito

Testata: Shalom
Data: 29 novembre 2006
Pagina: 0
Autore: Giorgio Israel - Victor Magiar
Titolo: «E se Israele fosse cancellata?»

E se Israele fosse cancellata? E' la dramamtica domanda posta dal mensile SHALOM:

Di seguito, la risposta di Giorgio Israel:



Ha senso porsi questa domanda? Esiste oggi, più che nel passato, un pericolo concreto per l’esistenza di Israele? È proprio così. Oggi Israele affronta un pericolo di una gravità senza precedenti. Esiste un regime, quello iraniano, che condivide con altri paesi e con il vasto fronte dell’integralismo islamico l’obbiettivo esplicito della distruzione di Israele, e che sta completandone l’accerchiamento su due fronti (Libano e Gaza) con i suoi alleati Hezbollah e Hamas, che sta velocemente armando fino ai denti.

Hezbollah sta operando dietro la compiacente cortina della missione Unifil, vantata dai nostri governanti come una missione “storica”. In questo momento, Israele - con l’eccezione degli Stati Uniti, che sono però impelagati in non pochi problemi – è solo e il suo governo sta commettendo l’errore di fidarsi di chi non ama Israele.
È quindi dovere di ciascuno di noi diffondere la consapevolezza della gravità estrema della situazione e della elevata probabilità di un nuovo conflitto che potrebbe essere molto difficile. Occorre diffondere la consapevolezza che la domanda di cosa accadrebbe se Israele cessasse di esistere non è purtroppo fuori della realtà, e che un corretto atteggiamento è, in primo luogo, operare perché essa non diventi concreta.

Con il senso di malessere che provoca un simile triste esercizio mentale, osservo preliminarmente che trovo poco ragionevole disquisire chi resisterebbe, nel caso della distruzione di Israele, se l’ebraismo ortodosso o chi altro. La storia non fornisce risposte meccaniche perché non obbedisce a leggi come la fisica. Dalla storia possiamo soltanto trarre esperienze e lezioni che possono suggerire le linee di tendenze del futuro, tenendo conto però che i contesti storici non sono mai uguali a quelli del passato. Guardando alla storia trascorsa ci rendiamo conto che l’ebraismo ha sopravvissuto duemila anni non soltanto riparandosi dietro la “siepe della Torah”. L’ebraismo è sopravvissuto perché conservava intatto il senso di una missione, non soltanto per sé ma anche per gli altri: portare il nome di Dio. E questa missione non l’ha compiuta soltanto l’ebraismo ortodosso ma anche quello “laico”. L’ha compiuta l’ebraismo nel suo complesso, nelle sue infinite sfaccettature. Del resto, chi non manca di sottolineare e lamentare i processi di assimilazione e disgregazione dell’ebraismo contemporaneo, dimentica che l’ebraismo nel passato ha subito processi di assimilazione imponenti, dal marranismo alla fase – compresa simbolicamente tra la Rivoluzione Francese e il processo Dreyfus – in cui, come ricorda Gershom Scholem, gli ebrei dell’Europa occidentale imboccarono con tanta decisione la via della cultura europea laica, da sentire la sfera religiosa come qualcosa di estraneo e persino come un’esperienza che offendeva il pensiero razionale. In confronto a quelle fasi storiche, l’ebraismo contemporaneo appare di una compattezza senza precedenti.

Nel passato, l’ebraismo ha affrontato due tragedie storiche, l’espulsione dalla penisola iberica e la Shoah, ne è stato devastato ma non eliminato: entrambe queste tragedie hanno determinato profondi sviluppi, anche teologici, e dopo la Shoah l’ebraismo ha persino riscoperto dei fattori identitari. È vano quindi speculare su cosa accadrebbe. Vittorio Dan Segre si dichiara certo che tra mille anni l’ebraismo esisterà ancora ma non Israele. Difficile dire se la seconda certezza abbia fondamento - e speriamo che non ne abbia… - ma vi sono buone ragioni per ritenere che la prima certezza non sia campata in aria. L’ebraismo sopravviverà, in forme difficilmente prevedibili, se e soltanto se avrà ancora qualcosa da dire a sé stesso e al mondo, se crederà ancora nella sua missione, e nulla ci fa pensare che questa funzione sia esaurita; anche se il fallimento del primo tentativo storico di restaurare una nazionalità ebraica dopo la dispersione avrebbe conseguenze drammatiche e difficilmente prevedibili.
La domanda cui è più facile rispondere è che cosa significherebbe per il mondo, e per l’Europa in particolare, la scomparsa di Israele. Ricordo anche qui un’osservazione di Vittorio Dan Segre: nel Lager un terzo dell’ebraismo è stato distrutto, ma esso non è morto, mentre nel Lager l’Europa è morta. L’Europa ha ucciso nei Lager la parte migliore di sé stessa: quel messaggio morale su cui si è basata un’idea di convivenza civile e di diritti della persona che è una componente centrale della sua identità, ellenica, ebraica, cristiana. Se non ci facciamo incantare da certe ridicole retoriche sull’Europa forza gentile e portatrice di ideali di tolleranza, vediamo chiaramente il procedere zoppicante dell’Europa, il suo vagolare nel buio senza il senso di un’identità e di una direzione. L’idea di tolleranza dell’Europa di oggi è, in realtà, una forma di ipocrita e cinico “politicamente corretto” dietro cui si nasconde l’odio di sé e l’incapacità di ritrovare in sé le ragioni del proprio futuro. L’Europa non ha fatto i conti in modo davvero sostanziale con Auschwitz, ma mostra di farli esibendo un atteggiamento penitenziale in gran parte formale, che serve da alibi per impancarsi a giudice del resto dell’Occidente. È l’Europa “giudice-penitente”, secondo l’efficace formula di Alain Finkielkraut.

Ne è prova la gestione ipocrita della Giornata della Memoria, usata per ricordare Auschwitz come se fosse il luogo della distruzione di un popolo che non esiste più e con il quale non bisogna fare i conti nel presente, bensì soltanto per commemorare la storia. Difatti, per buona parte della cultura europea – quella su cui pesa non soltanto il passato nazifascista, ma anche il passato comunista, la complicità o il silenzio sui suoi crimini – gli ebrei da amare sono soltanto quelli morti, o quelli vivi che si sono separati dalla propria identità (che è un’altra forma di essere morti). Quelli che si aggirano nel presente sono ebrei cattivi e degenerati, sono la proiezione dello stato sionista e delle sue efferatezze. La Giornata della Memoria è diventata l’occasione per ricordare gli ebrei morti e condannare gli ebrei vivi.
È un modo di ragionare che ha la funzione di addormentare la propria cattiva coscienza convincendosi a forza di due cose: che è malvagio lo Stato di Israele e chi lo difende, e che esso è talmente forte dal punto di vista militare e per gli appoggi economico-militari della lobby mondiale sionista e americana, che la sua distruzione è semplicemente impossibile, che si tratta di una fandonia messa in giro per coprire e giustificare tutte le malefatte sioniste. Di questo atteggiamento abbiamo manifestazioni quotidiane. Nella recente guerra del Libano Israele ha subito un bombardamento a tappeto di razzi Katiusha, che ha prodotto morti e distruzioni imponenti ed ha costretto un terzo della sua popolazione a vivere per un mese nei rifugi o a emigrare provvisoriamente nel resto del Paese. Intanto, da Gaza piovevano (e piovono) razzi Kassam che hanno reso la vita difficile nella città di Sderot. È ormai il segreto di Pulcinella che stanno arrivando in Libano e a Gaza missili a lunga gittata che renderanno tutto il paese vulnerabile e faranno di un altro probabile conflitto una resa dei conti di tremenda drammaticità. Ma per le coscienze addormentate d’Europa tutto ciò non esiste. Esiste soltanto il dramma del Libano, gli aiuti debbono andare tutti in quel paese. Evidentemente alla catastrofe umanitaria di Israele deve pensarci la lobby di cui sopra. Se almeno il nostro ministro degli Esteri ha avuto il buon gusto di fare due viaggi in Israele, il nostro presidente del consiglio ha messo piede soltanto in Libano per vantare con una retorica degna di miglior causa la storica missione che fa da paravento al riarmo di Hezbollah e scambiare sorrisi con esponenti politici che gli ribadivano in faccia e senza pudore il diritto di Hezbollah alla “resistenza” armata contro Israele.

Quali sarebbero le conseguenze per il mondo, nel caso tragico in cui si lasciasse compiere la distruzione di Israele? Sarebbe una catastrofe inimmaginabile e dalle conseguenze irreparabili. Dice bene Amos Luzzatto: si lascerebbe affermare un principio devastante, e cioè che è possibile risolvere un conflitto demolendo uno Stato, e si lascerebbe distruggere una cultura che ha dato e sta dando un contributo fondamentale all’umanità. Il mondo diverrebbe un luogo difficile da vivere. Per l’Europa poi - per quell’Europa di cui abbiamo appena parlato - sarebbe l’ultimo passo verso il rinnegamento di una delle sue principali radici costitutive e quindi verso una definitiva dissoluzione morale e persino materiale.
Sarebbe ben misera motivazione per l’esistenza di Israele la salvezza di un’identità ebraica altrimenti traballante. Dovrebbe invece penetrare nella coscienza di chiunque che, se Israele venisse lasciato perire, sarebbe il segnale che il mondo sta definitivamente affondando nella barbarie.

Ho ancora davanti agli occhi il momento in cui il 5 giugno ’67 sono fortunosamente tornato a casa mentre le strade di Tripoli erano attraversate da folle di fanatici e le case e i negozi degli ebrei andavano in fiamme. Mia madre disperata si è inginocchiata e ha abbracciato me e mia sorella, ci ha stretto al petto fino a soffocarci e poi, alzando gli occhi al cielo ha implorato “Signore prendici tutti… ma fai che vinca Israele”.
È da quel giorno che mi ripeto sempre la stessa domanda: Israele può cessare di esistere? Ha senso per un ebreo vivere se non c’è più Israele?

E quella di Victor Magiar:

Gli amici di Shalom considerano questa una provocazione culturale, ma io non la trovo affatto un’affermazione provocatoria né, tanto meno, teorica: il rischio che lo Stato di Israele possa sparire è assolutamente possibile, e dobbiamo tenerlo sempre a mente.
Iniziamo con il dire che è già successo che gli ebrei abbiano perduto la loro terra e il loro Stato… e a chi obietterà che si tratta di storia vecchia sarà bene ricordare che anche nell’era moderna diversi popoli hanno perso la loro rappresentanza statuale o ne hanno subito la trasformazione: altri sono stati decimati o dispersi. Del resto per la Storia i 60 anni di vita di un’entità sono poco più di nulla: i crociati sono rimasti in Terra Santa per solo 300 anni… e poi, come in una fiaba, sono spariti per sempre.

Sembrano parole farneticanti, ma sono invece la convinzione profonda che da più di 40 anni diversi leader arabi hanno avuto come bussola politica e che hanno trasmesso a masse frustrate e oppresse, come antidoto contro ogni sconforto e sconfitta. “Possiamo perdere anche 100 guerre, ci basta di vincere l’ultima” ripeteva Nasser.
È questa idea il principale carburante per l’azione dei più fanatici: prima o poi Israele perderà. Tutti prima o poi perdono.

Ha perso il gigante americano in Vietnam, ha perso il colosso sovietico in Afghanistan. Ma cosa accadrà agli ebrei, diasporici o israeliani, che sopravvivranno all’annientamento di Israele? … perché è di questo stiamo parlando, non del crollo di uno Stato ma del rischio di sparizione di una nazione, di un popolo. Cosa accadrà di me lo so già: io impazzirò. Ma non sarà così per tutti.
È lecito pensare che succederà di tutto, ogni ipotesi è possibile… ma personalmente credo che ciò che più conta quando si parla di Storia è che occorra considerare il tempo.

In una prima fase sarà tempo di lutto: nelle nostre menti, nelle nostre comunità, e anche nelle menti dei non-ebrei e nel mondo intero. Si scatenerà la più angosciante delle riflessioni sui mancati insegnamenti della Storia, sulle responsabilità dei politici, sul rapporto democrazia-violenza, mediazione-guerra. In molti non sopporteranno il peso di una così grande tragedia. Sarà tempo di rancore e di risentimento, di sospetto, morte lenta e pazzia.
Non sarà il dolore profondo della perdita di un genitore: sarà la disperazione assoluta per la perdita inaccettabile di un figlio, perché Israele è il figlio unico di madre Diaspora, anziana e provata. Noi ebrei… ci divideremo fra noi, accusandoci a vicenda… poi ci raccoglieremo, per elaborare il lutto e per provare a reagire.
Noi ebrei ci divideremo dalle altre genti, accusando il mondo intero… poi ci raccoglieremo per trovare nuove alleanze e per provare a reagire. Sarà il poi, il tempo, il secondo tempo a dare la vera risposta a questa domanda: noi ebrei, o meglio…

Israele, il popolo di Israele farà l’unica cosa che potrà e dovrà fare: si organizzerà, coltiverà una nuova speranza, passerà all’azione.
Questo per un motivo molto semplice: perché lo Stato di Israele che noi oggi conosciamo in realtà non è uno Stato.
Solo i politici di mestiere, o gli oppositori e i denigratori di Israele, o i suoi più fanatici sostenitori considerano lo “Stato di Israele” alla stregua di altri Stati… anzi, più forte degli Stati! Potente e invincibile.
Ma noi sappiamo che Israele non è questo: Israele, la sua nascita, sono un traguardo dell’umanità, un atto di giustizia, il riscatto del popolo ebraico e dell’umanità intera.
Israele è la dimostrazione che una speranza può diventare realtà, la dimostrazione della realizzazione di ogni utopia. Ma soprattutto Israele, con l’idea sionista, con la sua nascita, con la sua vita, ha generato una mutazione nel profondo dell’anima ebraica, una vera “mutazione genetica”. Se consideriamo che da 100 anni noi ebrei abbiamo imparato a lottare per noi stessi, capiremo che lotteremo anche nel futuro: abbiamo alzato la testa una volta, lo faremo ancora.

Lo so: posta come un’ipotesi astratta, la questione della sparizione dello Stato di Israele stuzzica le fantasie dei più edotti, ed ognuno di noi troverà nuovi argomenti di distinzione dagli altri ebrei. Chi penserà in termini politici, chi storici, chi demografici, chi filosofici, chi religiosi… e tutti gli argomenti di sempre verranno rievocati per dire il fatidico “ve lo avevo detto!”: ci divideremo, come abbiamo sempre amato fare. Ma se consideriamo questa come un’ipotesi realistica, come un rischio reale, penseremo diversamente: di necessità faremo virtù.

È da quando sono bambino che penso alla sconfitta di Israele. Anche per questo ho sempre pensato che la pace negoziata, il compromesso politico, è per Israele l’unica salvezza e contemporaneamente la sua vittoria più completa: cioè l’accettazione da parte di chi ne ha rifiutato l’esistenza. Per questo la migliore risposta, non alla domanda teorica, ma al rischio reale, è fare oggi il massimo per dare pace e sicurezza a Israele il prima possibile!
Se domani dovesse sparire Israele io rischierei di impazzire… o forse no. Folle o lucido farò la mia parte nella nuova frenesia ebraica, disperata o realistica, comunque necessaria: non servirà un nuovo Theodor Herzl, perché siamo già dei nuovi ebrei. Theodor ha fatto per noi (e di noi) più di quanto potesse immaginare.

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