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Panorama Rassegna Stampa
24.01.2009 Opinionisti a confronto: Fiamma Nirenstein analizza le sfide che attendono Abu Mazen
mentre Sergio Romano fa l'apologia di Hamas

Testata: Panorama
Data: 24 gennaio 2009
Pagina: 84
Autore: Fiamma Nirenstein - Sergio Romano
Titolo: «Difficili sfide per Abu Mazen - Perché occorre parlare con Hamas»

Da pagina 84 di PANORAMA del 23 gennaio 2009, l'analisi di Fiamma Nirenstein, "Difficili sfide per Abu Mazen" :

Dopo la guerra delle ultime settimane i capi militari e politici di Hamas, al contrario di quelli di Hezbollah nella guerra del 2006, sono usciti dai lori rifugi e hanno dovuto fronteggiare un problema insuperabile: riprendere il controllo di Gaza dopo la sconfitta. In mezzo alle rovine e ai morti, di fronte a una popolazione disfatta, i leader hanno subito cominciato a propagandare una «vittoria divina» e hanno indetto una grande celebrazione di piazza.

Dove hanno dichiarato, dicono fonti locali, che il loro esercito aveva perso solo 48 uomini, di fronte a più di 1.000 civili. Ma altre fonti, sempre palestinesi, parlano di 400 militanti morti, del veloce abbandono delle divise per ordine dei vertici, del fatto che Ismail Haniyeh mente quando racconta di aver ucciso 80 soldati di Tsahal, e della mancanza di qualsiasi episodio di valore dei loro armati. Ismail Haniyeh e Khaled Meshaal, qualcuno osa sussurrare dentro Gaza, sono rimasti sempre al riparo nei sotterranei degli ospedali, a Damasco.

Si sa che Hamas ha perso almeno metà delle armi, che molte gallerie sono state distrutte e che i miliziani non hanno ricevuto ordini adeguati alla situazione. È stato annientato uno dei gruppi più addestrati, chiamato «la colonna iraniana» perché tutti i suoi militanti erano stati preparati da ufficiali iraniani, in loco o in Iran con i guardiani della rivoluzione.

Non solo. Said Siam, l’unico alto dirigente di Hamas ucciso nel corso di questa guerra con un’azione di eliminazione mirata, era non solo ministro dell’Interno a Gaza, era anche il vero ufficiale di collegamento tra il fronte interno della Striscia e il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad in persona: esistono riprese televisive dei due insieme, mentre si scambiano informazioni e affettuosità. Al summit di Doha, due settimane fa, Ahmadinejad sosteneva che Israele è alla vigilia del suo annientamento e il presidente siriano Bashar al-Assad aggiungeva che Israele non merita trattative di pace. Ma tre giorni dopo, durante il summit in Kuwait, dove i paesi sunniti moderati avevano la prevalenza, il presidente egiziano Hosni Mubarak è tornato a essere la testa pensante della tregua e ha sostenuto senza peli sulla lingua che ci sono stati islamici che danzano sul sangue dei palestinesi. Intanto prometteva un aiuto, finanziato da egiziani e sauditi, di 2 miliardi di dollari per la ricostruzione di Gaza e si qualificava, con gli europei, come l’unica garanzia contro il passaggio di armi dentro Gaza.

L’Egitto, insieme all’Europa, ha incessantemente chiamato in causa il suo amico Abu Mazen, presidente dell’Autorità nazionale palestinese, interlocutore privilegiato per la riapertura di un processo di pace. Abu Mazen desidera riprendere Gaza, almeno in parte, e riaprire il dialogo. Ma deve fare i conti con l’opinione pubblica della Cisgiordania: mentre il quadro medio di Al Fatah vede Hamas come «criminale responsabile della morte di centinaia di palestinesi», la gente invece ammira Hamas e il suo «eroismo» nel contrastare Israele.

Nella Striscia di Gaza Abu Mazen è stato trattato da collaborazionista e svillaneggiato in molte manifestazioni. Dunque, contro i sensi di colpa, la gente della Cisgiordania vorrebbe che la sua dirigenza dimostrasse lealtà alla causa palestinese con un’altra rivoluzione violenta. Abu Mazen ha di fronte molte difficili sfide.

A pagina 174, Sergio Romano spiega "Perché occorre parlare con Hamas", negando il carattere terrorista dell'organizzazione con il risibile argomento che non tutti coloro che vi aderiscono sono impegnati in azioni violente, minimizzando, in base a differenze religiose tra sciiti e sunniti che  in realtà tendono a perdere d'importanza di fronte al comune odio per Israele,  il suo legame con l'Iran e soprattutto dimenticando la sua volontà di distruggere Israele.
Ecco il testo:


Può essere antiamericano e pregiudizialmente ostile agli Stati Uniti soltanto chi crede nell’esistenza di una ideologia «yankee» comune all’intero paese e condivisa da tutti i suoi cittadini. La realtà naturalmente è alquanto diversa.

I fatti e gli argomenti di cui mi servo per criticare la politica di Bush in Iraq e nel Medio Oriente sono spesso ricavati dalla lettura dei giornali americani. Barack Obama è stato eletto alla Casa Bianca anche e soprattutto perché si è presentato agli elettori come una sorta di anti Bush e ha duramente denunciato gli errori del suo predecessore. Capisco che molti lettori possano non essere d’accordo quando scrivo che gli Stati Uniti dovrebbero discutere direttamente con il governo iraniano i diversi aspetti del programma nucleare di Teheran. Ma non è forse ciò che lo stesso Obama ha detto, soprattutto agli inizi della sua campagna, e che molti americani sostengono da tempo?

Mi rendo conto che Hezbollah e Hamas pongono problemi particolari. Hanno un braccio armato che ha fatto largo ricorso in passato al terrorismo (i missili lanciati dalla Striscia di Gaza non possono essere definiti terroristici) e la seconda organizzazione, in particolare, ha uno statuto che rifiuta l’esistenza dello stato d’Israele. Ma hanno un vertice politico visibile, milizie armate addestrate alla guerra, istituzioni assistenziali, scuole, ambulatori, ospedali, uffici del lavoro e una base costituita da medici, infermieri, maestri, tecnici, amministratori.

Tutti terroristi? Secondo il governo israeliano e la presidenza Bush, Hezbollah e Hamas sono pedine di Mahmoud Ahmadinejad, quinte colonne foraggiate da Teheran di cui il governo iraniano si serve per seminare zizzania nella regione. Credo che questa interpretazione sia troppo semplicistica. Anche se finanziate e rifornite dall’Iran, le due organizzazioni hanno i loro obiettivi, la loro strategia e i loro ideali.

Hamas è sunnita, non sciita, e i suoi veri padrini ideologici sono in Egitto, patria della Fratellanza musulmana, non in Iran. Hezbollah è sciita, ma nella scorsa primavera ha accettato di concorrere alla formazione di un governo libanese di unità nazionale: una decisione che Ahmadinejad, probabilmente, non ha gradito.

Non basta. Le due organizzazioni sono grate all’Iran per l’aiuto ricevuto, ma non ignorano che il governo iraniano, se riuscisse ad avere un utile rapporto con gli Stati Uniti, le abbandonerebbe alla loro sorte. Non mi sembra del resto che l’Iran abbia fornito a Hamas tutte le armi di cui si chiacchiera in questi giorni. Se gli islamici della Striscia di Gaza avessero combattuto con armi moderne e sofisticate, il numero delle perdite israeliane sarebbe molto più elevato.

Sono queste alcune delle ragioni per cui credo che occorra parlare con Hamas e Hezbollah. Laddove molti vedono un blocco compatto e uniforme manovrato dall’Iran, io vedo molte crepe e fessure in cui la diplomazia occidentale può inserirsi utilmente.

Secondo alcuni osservatori della politica mediorientale, qualche collaboratore di Obama starebbe già confidenzialmente parlando con rappresentanti di Hamas che vivono negli Stati Uniti. È antiamericano pensare che questo sia un passo nella direzione giusta?

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