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Panorama Rassegna Stampa
25.08.2005 Il ritiro è stato la mossa giusta?
drammatici interrogativi su una svolta storica nell'analisi di Fiamma Nirenstein

Testata: Panorama
Data: 25 agosto 2005
Pagina: 44
Autore: Fiamma Nirenstein - Gaetano Quagliarello
Titolo: «Gaza, Sharon ha fatto la mossa giusta ? - Come il generale De Gaulle»
PANORAMA datato 25 agosto 2005 pubblica a pagina 44 un articolo di Fiamma Nirenstein sul ritiro da Gaza.

Lo riportiamo:

Nevet Dkalim, la più importante fra le cittadine della Striscia di Gaza: con gli occhiali sul naso pieno di lentiggini e la capigliatura rossa spettinata, i piedi ancorati su un tappeto d'erba, un ragazzino con il corpo come un arco punta la testa in avanti.
A braccia tese spinge la pancia di un soldato alto e grosso che si appresta a entrare nella sua casa e gli urla: «Guardami negli occhi, tu vieni a distruggere la mia casa!». Ma il soldato non può starlo a sentire, anche se il viso è contratto, prossimo alle lacrime.
Avanza con il suo reparto verso le case da sgomberare e, oltre al dolore di calpestare un'erba così verde, coltivata come per miracolo nella sabbia e adesso destinata a morire, sente lo strazio: deve cacciare famiglie che mai più vivranno nelle case costruite con le loro mani. Probabilmente quel soldato grande e grosso ha nella testa gli stessi drammatici interrogativi di tutto il mondo.

Per cominciare: perché il premier Ariel Sharon ha deciso di sgomberare Gaza senza ottenere in cambio neppure una promessa di pace e neppure un gesto dal leader palestinese Abu Mazen contro il terrorismo di Hamas?
«Perché, perché?» ha seguitato a chiedere la gente impegnata a Gaza a resistere allo sgombero. Benny Elon, un membro del parlamento trasferitosi a Morag con i coloni, ricorda amaro: «Almeno quando abbiamo restituito il Sinai all'Egitto in cambio abbiamo ottenuto un trattato di pace che tiene dal 1979.
Stavolta otterremo altri missili e attentati suicidi».

Ma l'intenzione di Sharon, spiega Eyaòl Gladi, aiutante del primo ministro per Gaza, davanti al caotico centro di Eshkol, all'entrata della Striscia, è chiara: da una parte evitare che il sionismo, ovvero il progetto degli ebrei di costruire il loro stato, si trasformi da sogno democratico in incubo a causa del quale devono dominare un altro popolo. A Gaza c'erano 8 mila coloni a fronte di quasi 1 milione e mezzo di palestinesi: una situazione ingestibile, a meno di non stabilire leggi che niente hanno a che fare con la democrazia.
Il secondo scopo è tentare, conferendo ad Abu Mazen un nuovo territorio, di responsabilizzare la leadership palestinese, sperando che combatta il terrorismo e democratizzi le proprie strutture. È un modo di partecipare alla grande scommessa per la libertà in Medio Oriente cui punta il presidente americano George W. Bush.
La seconda domanda è sulla reazione palestinese. Basta aprire i loro giornali: sono pieni di slogan vittoriosi. Una copertina del giornale di stato mostra da una parte un palestinese che sventola la bandiera, dall'altra un «settler» ebreo piangente. Ma hanno davvero vinto i palestinesi? La risposta è che la sofferenza di Israele per l'attacco terrorista durato quattro anni e mezzo ha certo avuto il suo effetto. Tuttavia, è Sharon che ha vinto la guerra del terrore, riducendo gli attentati del 90 per cento con l'operazione Scudo di difesa: 7 mila palestinesi in prigione, molti dei leader di Hamas e delle Brigate di al-Aqsa eliminati con assassinii mirati, migliaia di attacchi bloccati per la strada grazie alla struttura rinnovata di intelligence. E innalzando il recinto di sicurezza, quella barriera difensiva che molti chiamano polemicamente muro.

Ma, e qui viene la terza domanda, chi può garantire che i palestinesi si accorgano che il terrorismo è un fallimento strategico quando Hamas. seguita a proclamare che continuerà la guerra fino a liberare Gerusalemme perché è con gli attentati che ha ottenuto la liberazione di Gaza? Può garantirlo solo il prevalere del premier Abu Mazen su Hamas: «E questo al momento appare difficile. Anzi, Abu Mazen per ora è al fianco di Hamas quando eccita la folla dicendo che il ritiro da Gaza è il primo passo verso Gerusalemme» sostiene l'analista palestinese Khaled Abu Toameh. Dal versante arabo di Gaza aspetta di vedere se lo sgombero sarà inseguito dal fuoco palestinese che potrebbe fermare tutto. «Lo scontro fra Hamas e Abu Mazen al momento è sul merito dello sgombero. E per questo si seguita da ogni parte a lodare la lotta armata: questo non aiuta Abu Mazen».
A una quarta domanda, se Israele sarà più sicuro nei suoi confini, Yaacov Amidror, generale e consigliere di Sharon, è molto scettico: «È più facile immaginare che quando i palestinesi controlleranno il porto e l'aeroporto a Gaza entrerà ogni tipo di armi. Allora sarà più facile arrivare con i missili Kassam alle città dentro la linea verde, e ci troveremo accanto un piccolo Iran che giura che Israele sarà distrutta, visto che Hamas a Gaza è maggioritario».
Quindi, ed ecco la quinta domanda, è immaginabile che Israele dopo questo sgombero prepari quello dalla Cisgiordania? Risposta realistica: Sharon proseguirà sulla linea demografica, ovvero cercherà di garantire che Israele rimanga uno stato a maggioranza ebraica, e della sicurezza. Proverà, anche se continuerà il terrorismo, a non abbandonare parte degli insediamenti più popolati. Ma sul campo, mentre si trascinano via le persone che hanno abitato lì per trent'anni facendo da scudo umano al sud di Israele, la previsione è durissima.

La riassume a «Panorama» il leader dei coloni Arieh Eldad di fronte al mare azzurro di Shirat ha Yam, la Canzone del mare, villaggio con il nome più dolce e la resistenza allo sgombero più dura: «Sharon fa qui la prova generale del ritorno al più disastroso fra i processi di pace, quello di Oslo, in cui volevamo dare tutto e ricevere la pace, invece abbiamo ricevuto la guerra terroristica che ancora ci tormenta».
Ma non è la differenza di opinioni, e qui è la sesta e più spinosa questione per Israele, la difficoltà che la società dovrà affrontare nelle prossime settimane e forse nei prossimi anni. Il nodo è la voragine che si è aperta all'interno di una piccola nazione, 6 milioni di persone in mezzo a 700 milioni di arabi di cui nemmeno un decimo ha accettato con un trattato la sua esistenza, che avrebbe bisogno dell'unità interna come dell'ossigeno. La risposta è nell'abbraccio disperato, nelle lacrime dei soldati e dei coloni durante lo sgombero. Al di là del grande scontro ideologico sulla sacralità della terra, c'è una sorte comune antichissima, un amore profondo che tocca tutto il popolo ebraico. Un senso di appartenenza che, anche se oggi viene messo da parte negli insulti a Sharon e ai soldati, non è morto in circostanze persino più fatali di questa. Un amore che ha conservato in vita nei millenni il popolo ebraico.
Gaetano Quagliarello , in un'analisi a pagina 46, paragona Sharon al generale De Gaulle.

Ecco il testo:

Ariel Sharon come Charles De Gaulle: più passa il tempo e più la similitudine si rafforza. La silhouette alta e marziale del Generale è certo quanto di più differente si possa immaginare rispetto a quella sferica e claudicante del premier israeliano. Ma l'indole burbera, appena incrinata da una punta d'ironia, e persino l'apparente familismo (che, in realtà, è il portato dell'importanza attribuita alla trasmissione non coercitiva della tradizione), contribuiscono ad avvicinare i caratteri.

È sul terreno della storia che il parallelo si rafforza. Come per il fondatore della V Repubblica francese, anche per Sharon la politica rappresenta il prosieguo, con altri mezzi, del servizio prestato al proprio paese in armi. Per questo anch'egli è stato a lungo considerato un uomo di destra: da tanti benpensanti persino un reazionario. E ha raggiunto il potere allorquando i tentativi «progressisti» di metter fine a un contenzioso che ha portato la nazione sull'orlo del baratro sono falliti. Quel che più conta è che anch'egli, chiamato a interpretare una linea dura, sta provando a risolvere pacificamente una storica contesa, con concessioni che mai prima erano giunte più prossime al punto d'approdo.

De Gaulle sfidò i coloni algerini pur sapendo che l'ingiusta mutilazione della loro terra, dei beni, degli affetti e persino dei ricordi era il prezzo da pagare per la sicurezza e la prosperità della nazione. Oggi Sharon, dopo aver costruito un recinto di sicurezza, scommette sulla consegna unilaterale ai palestinesi della Striscia di Gaza. È il prezzo da pagare per un po' più di pace e, soprattutto, per ridare respiro alla vita civile ed economica d'Israele che, da quando è scoppiata la seconda intifada, prosegue come costretta in una camicia di forza.
E, a questo punto, il parallelo si approfondisce. Per compiere quel passo De Gaulle andò incontro all'odio insuperabile dei «pied noir» che, con la valigia di cartone, furono costretti a sloggiare, alla ricerca di un altrove. Le manifestazioni dei coloni ammassati a ridosso del Muro del Pianto sono tangibile premessa che a Sharon accadrà lo stesso.
In Francia, inoltre, quando la prospettiva dell'indipendenza all'Algeria si concretizzò, più volte fu sfiorata la guerra civile. Quella vicenda armò la mano di un'opposizione terrorista che soltanto per caso non riuscì nell'intento di attentare alla vita del Generale. Lo stesso scenario si prospetta oggi per Israele. Ed è comunque certo che la vita di Sharon non sia più sicura di quanto lo fu, e per lunghi anni, quella di De Gaulle dopo gli accordi di Evian del '62.
Infine ad avvicinare i due scenari vi è il rapporto controverso con l'esercito. È qui che nella Francia di ieri, così come in Israele ora, si concentrano i rischi di una possibile degenerazione interna. Ma Sharon oggi, come De Gaulle ieri, per il prestigio militare che alimenta il suo carisma, rappresenta la migliore garanzia che ciò che si teme possa essere evitato. Non sono mancati gli imbecilli che, da sponde opposte, hanno considerato lo sgombero di Gaza una vittoria del terrorismo suicida. Vorremo consigliare loro di prendere in considerazione il ruolo che, in questa partita, ha giocato la coalizione internazionale contro il terrorismo all'interno della quale Israele, per scelta e per convenienza, deve fare la sua parte. E, ancor più, il coraggio, la determinazione e in fondo l'ambizione di un uomo che, dopo aver accettato la sfida della forza, cerca d'ultimare la parabola della propria vita avvicinando il suo paese il più possibile all'instabile conquista di un po' di pace. Anche in questo caso il parallelo con De Gaulle soccorre. Aiuta a spiegare che quando una nazione si trova davanti a prove decisive (nelle quali entrano in gioco la storia, i valori, la coesione, i confini e il benessere), allora sono necessari uomini che sanno coniugare l'esercizio della forza con l'arte della politica. Perché, in quei casi, l'una cosa non può fare a meno dell'altra. A De Gaulle, nonostante sia stato l'unico uomo del Novecento ad aver salvato per due volte il suo paese, non bastò una vita intera per vedersi rivalutato e allontanare da sé l'accusa di golpismo. È veramente troppo chiedere alle tante cassandre, oggi smentite, che ad Ariel Sharon sia riservata sorte migliore?
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