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Panorama Rassegna Stampa
24.08.2005 Elogio del coraggio israeliano e dei coloni
un editoriale di Giuliano Ferrara

Testata: Panorama
Data: 24 agosto 2005
Pagina: 10
Autore: Giuliano Ferrara
Titolo: «Ci vuole coraggio per ritirarsi»
PANORAMA del 23 agosto 2005 pubblica a pagina 10 un coraggioso e puntuale editoriale di Giuliano Ferrara sul disimpegno israeliano.

Ecco il testo:

Il ritiro unilaterale dei coloni israeliani dalla Striscia di Gaza è una scelta politica benedetta, che solo un colosso della forza e della passione come Ariel Sharon poteva ideare, progettare, guidare nel dolore e nelle lacrime. Nel 1967, dopo la Guerra dei sei giorni, Ben Gurion il vecchio l’aveva detto esplicitamente che i territori occupati in seguito alla vittoria si sarebbero trasformati in un fardello insopportabile per Israele, perché avrebbero confermato e alimentato il «rifiuto arabo» degli ebrei in Terrasanta, un rifiuto ingovernabile in termini di sicurezza dentro i confini militari, politici e demografici di un impossibile Grande Israele. Ma il ritiro è anche un’epica, una nuova scheggia di transumanza biblica, un esodo dai risvolti religiosi vissuti con un’intensità profonda. Sbaglia per cecità e distrazione morale chi giura che i coloni sono soltanto degli estremisti fanatici, inviati in mezzo ai palestinesi dalla destra del Likud per imporre la regola di un piccolo imperialismo regionale.
Ho avuto in televisione a settembre dell’anno scorso un paio di famiglie di coloni asserragliati nelle loro case e bersagliati dai missili kassam, e sono risultati stupefacenti per tutti, anche per chi non condivide alcunché del progetto sionista: era gente venuta da Brooklyn e da un tipico chissà dove ebraico, e stordiva la chiarezza del loro sentirsi a casa, di una scelta di vita tragica fondata sulla fede scritturale e sul legame con quella terra costruito nella diaspora millenaria. E d’altra parte bastano le formidabili corrispondenze di Fiamma Nirenstein (vedere articolo a pagina 44) per capire che i coloni non sono un’aristocrazia razziale insediata in mezzo alla povertà araba per umiliarla, ma un pezzo del sionismo, un arto di Israele che viene amputato per ragion di stato e per costruire, se non la pace oggi imprevedibile, una tregua possibile nel massacro terrorista e nella spirale della violenza.
Il mondo contemporaneo vive giustamente nel miraggio, che a volte diventa realtà, di una vita migliore. I coloni sono gli unici esseri umani che abbiano scelto una vita infinitamente peggiore di quella che lasciavano, e la sociologia sulla vita a basso prezzo negli insediamenti, sugli incentivi di stato legati alla sicurezza dei confini difesa dall’esterno non cancella questo dato di fatto: vivere, amare, generare e morire in una terra intensamente amata e folta della più irredimibile ostilità della maggioranza dei suoi abitanti, è la loro temeraria vocazione, una scelta la cui tragica grandezza non si discute nemmeno quando si sia convinti che il loro posto non è lì, che devono andare via, che un esercito di loro fratelli e sorelle dovrà finire di espellerli. Chi va per le spicce e aderisce ai luoghi comuni correnti sulla bassezza, la crudeltà, lo spirito provocatorio dei coloni israeliani faccia questo semplice ragionamento: i coloni non sono occupanti, sebbene siano protetti dall’odio che li circonda da un esercito occupante che ha vinto guerre esistenziali contro un nemico che vuole la morte di Israele, e soprattutto a Gaza i coloni sono poche migliaia in mezzo a oltre un milione di palestinesi.

Poche migliaia contro milioni, abitatori di nidi turriti e armati in cui si tenta difendendo ogni giorno gli asili e le scuole e le case di far rivivere la terra, di darle forza e bellezza e di strapparle frutti, coltivando, commerciando, lavorando con fatica comunitaria in un sistema di diritto che alla fine ha deciso per la loro deportazione con le procedure di un paese democratico, unico nella regione. In un mondo che celebra ogni giorno il multiculturalismo più facile e la pace e la convivenza, a pochi viene in mente che è segno di intossicazione ideologica considerare le famiglie insediate in terra palestinese solo come un simbolo di occupazione militare imperiale e non anche come una via ostruita dal rifiuto razziale ed etnico, una possibilità di convivenza sempre osteggiata dalla prassi e dalla politica della classe dirigente legata a Yasser Arafat e alle sue intifada suicide.
«Via i coloni» è stata la parola d’ordine del pensiero unico olpista e di sinistra, in Medio Oriente e in Europa, e ora che questa parola d’ordine viene fatta realtà da quell’orco benedicente di Sharon, si fa festa. Ma nella festa scompare la verità delle cose: i coloni si ritirano dopo che è stato costruito un muro difensivo che protegge dal terrorismo la popolazione di un paese assediato e combattuto soltanto perché esiste, e in realtà il rifiuto violento dei coloni, la retorica sciatta anticoloni, l’impossibilità per gli arabi di considerare parte del processo di pace la convivenza con i civili ebrei titolari di diritti privati su quei fazzoletti di terra che ora verranno polverizzati delle ruspe, è il segno tremendo del persistente rifiuto arabo della realtà di Israele. La pace verrà quando gli ebrei in minoranza tra gli arabi saranno trattati con la stessa civiltà multietnica e multiculturale con cui vengono trattati gli arabi di minoranza titolari di ogni diritto in terra di Israele.
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