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Panorama Rassegna Stampa
14.05.2004 L'altro piano di Sharon
che potrebbe diventare realtà

Testata: Panorama
Data: 14 maggio 2004
Pagina: 180
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «L'altro piano di Sharon»
Il piano di Sharon per il ritiro da Gaza è stato rifiutato nel referendum fra gli iscritti al Likud? Fiamma Nirenstein racconta il piano alternativo del premier israeliano e le sue probabili mosse future in un articolo pubblicato su "Panorama" di questa settimana.
E' in bilico sul filo di una diplomazia impossibile e un piano segreto, preparato nelle stanze di Ariel Sharon, il futuro della pace in Medio Oriente. Quel piano richiede, soprattutto, la capacità di resistenza solo contro quasi tutti del primo ministro israeliano.
D’altronde Sharon sa giocare a questo tavolo, talvolta anche bluffando. Quelli che non andavano d’accordo con lui li ha messi tutti in scacco: Golda Meir, Yitzhak Rabin, Menahem Begin, Benjamin Netanyahu, Ehud Barak… Come quando, nel 1982, l’allora ministro della Difesa raccontò a Begin la balla che l’esercito avrebbe marciato dentro il Libano per soli 40 chilometri, e poi lo portò fino ad assediare Yasser Arafat a Beirut. Oppure quando, da giovane, era capo del Comando sud dell’esercito: il suo capo di stato maggiore Haim Bar Lev gli impose di non dire una parola sul futuro di Gaza ai politici che se ne occupavano. Ma «Arik» passava «per caso» da Gaza quando la commissione ministeriale cercava di prevedervi misure di sicurezza dopo la guerra del 1967 e suggerì loro, sempre casualmente, dove costruire un insediamento ebraico. Bar Lev lo incontrò sul terreno, a Gaza, lo stesso giorno: lo prese a insulti, ma Sharon aveva già compiuto la sua missione.
Anche 60 mila membri del suo partito, il Likud, il 2 maggio lo hanno trattato assai male, animati dalla paura di perdere le loro case negli insediamenti di Gaza e di parte della Giudea e della Samaria. Anzi, come diceva uno slogan, di «lasciare le proprie case in dono ai propri assassini». Ma Sharon, così come pensava che l’insediarsi sul territorio fosse indispensabile nel 1967 per proteggere Israele e consolidarlo, oggi ritiene che il ritiro unilaterale e lo smantellamento degli insediamenti a Gaza e in parte dei Territori costruisca una linea di difesa più salda e sicura. E pensa pure che, nella grande idea americana di democratizzazione del Medio Oriente come frontiera indispensabile per battere il terrorismo, la sua scelta induca i palestinesi, mettendoli di fronte alla necessità di governare una porzione di territorio, a un ricambio di leadership e finalmente a trattare. Al referendum, però, la sua gente, quella parte più dura del Likud che considerava Sharon lo scudo di difesa degli insediamenti, gli ha votato contro e lo ha lasciato al freddo. Un bagno non indispensabile, secondo Ehud Olmert, il suo vice, che del resto non crede all’importanza del risultato: «i votanti erano solo il 50 per cento del Likud, solo gli attivisti si sono affollati presso le urne».
Olmert è adesso in partenza per gli Stati Uniti, al posto di Sharon, per parlare il 17 maggio al congresso dell’Aipac, l’American Israel public affair conference, grande organizzazione ombrello dei gruppi ebraici americani, anch’essi disorientati come il governo di Sharon. Ma il premier non è pronto a dire loro una parola definitiva sul futuro e manda il suo vice. Né a incontrare adesso George W. Bush con cui aveva un appuntamento. Aspetterà per mettersi al riparo fino all’appuntamento che ha dato all’opinione pubblica mondiale fra tre settimane, quando (ha dichiarato) sarà pronto il suo nuovo piano.
Come sarà questo piano? Riduttivo, come chiedono i coloni e la destra del suo governo, che gli chiedono di demolire il suo programma, o almeno di non rinunciare al Gush Katif (il blocco maggiore a Gaza) e di militarizzare la linea di confine detta Philadelphia? Oppure il piano sarà onnicomprensivo ma meno disperante per chi vive negli insediamenti? O, ancora, sarà concordato con i palestinesi, in modo da evitare sia le critiche internazionali sia le proteste di Abu Ala, sia gli insulti di chi lo accusa di voler rinunciare a tutto in cambio di niente?
È probabile che Sharon stia convincendosi della necessità di un qualche dialogo, basato sull’idea che i palestinesi debbano agire contro il terrore, come diceva anche la road map. Potrebbe così dare una contropartita all’opinione pubblica israeliana, come pure al mondo che vuole gli interlocutori seduti ad un tavolo già prima di arrivare a un accordo. Ma quale accordo? I segnali sembrano dire che Sharon non intende darla vinta ai coloni. In questi giorni, secondo le indiscrezioni, sta preparando un piano vendetta, contro il grande rifiuto dei suoi ex amici: prevede lo smantellamento di decine di avamposti illegali, alcuni dei quali forti di decine di famiglie, divenuti ormai autentiche colonie. Questo per dimostrare al mondo e a Israele che si va avanti. Poi sta consultando governo e opposizione. Fra i ministri sa di avere tre nemici: Benjamin Netanyahu, Limor Livnat (Educazione) e Silvan Shalom (Esteri), che invece di aiutarlo a vincere si sono astenuti dalla campagna. Netanyahu gli ha detto all’ultima riunione di gabinetto, domenica scorsa, che secondo lui la decisione del Likud è cogente. Dunque non si può procedere ed è bene annunciarlo alla svelta. Ma un altro ministro, un laico dello Shinui, Tommy Lapid, gli ha detto l’esatto contrario: «il tuo referendum era consultivo, non impegna il governo. Prepara subito un piano alternativo e andiamocene da Gaza, altrimenti ce ne andiamo noi dal governo».
Sharon, ammaestrato dal passato, sa che adesso il suo piano deve arrivare protetto in una botte di ferro e vuole prepararlo bene, anche se ha fretta. I ministri di destra, come Benny Elon o Uzi Landau, grandi sostenitori dei «settler», vogliono trascinare Sharon in una guerra solo di forza contro il terrorismo. Hanno addirittura abbandonatola riunione di governo ritenendo che Sharon, dopo il referendum , non avesse più il diritto di presentare al governo proposte di sgombero. Per Sharon potrebbe non essere un grave problema: se questi ministri di destra se ne andassero, potrebbero arrivare rinforzi da sinistra.
I laburisti, per ora, spingono per elezioni anticipate in cui potrebbero ottenere più voti e si preparano a riaffacciarsi in piazza con una grande manifestazione che spinga Sharon a procedere.
Ma Arik guarda al mondo. Vede che Bush è in grave difficoltà con l’Iraq per la sconvolgente vicenda delle torture, capisce che una riapertura della road map potrebbe essere essenziale per riconquistare consenso ai suoi piani di democratizzazione del Medio Oriente. E vede anche che l’Europa ha finalmente capito che lo sgombero era una buona idea.
In ogni caso il Medio Oriente che brucia ha bisogno di grandi risposte. Ecco, quindi, il piano segreto di Sharon preparato dal generale Giora Ailand, lo stratega che svolge il ruolo di capo del consiglio di sicurezza presso il primo ministro. Prevede anzitutto lo sgombero da Gaza, poi lo smantellamento delle colonie in parte della Cisgiordania.
Teorizza, poi, che la Striscia di Gaza triplichi la propria estensione grazie a concessioni territoriali egiziane sul confine e nel Sinai. In cambio l’Egitto riceverebbe da Israele 200 chilometri quadrati nel NEgev e un tunnel attraverso la terra di Israele per connettere queste aree al Mar Mediterraneo. Anche se la Giordania riceverebbe l’accesso al Mediterraneo con un tunnel, e così pure l’Arabia Saudita e l’Iraq, in modo da creare un’intensa promozione economica per tutto il Medio Oriente. Per quanto riguarda i palestinesi, è previsto che ricevano l’89 per cento della Cisgiordania, mentre Israele si terrebbe quell’11 per cento occupato dai maggiori nuclei di popolazione ebraica. Gaza diventerebbe, così, un porto di massima importanza grazie anche agli investimenti internazionali.
Stati Uniti ed Egitto avrebbero il patronage internazionale dei territori palestinesi per evitare che si crei uno stato dominato dl terrorismo. L’intenzione di Sharon è arrivare alla sigla di questo accordo durante una conferenza di pace con le varie parti, gli Usa, l’Ue e la Russia.
Per ora il piano sarebbe stato visto dal capo di stato maggiore israeliano «Boogy» Ya’alon, dal consigliere per la Sicurezza nazionale americana Condoleezza Rice e dal ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer. Sconosciute le loro reazioni. È evidente la portata rivoluzionaria del progetto. Ed è chiaro che, per approvarlo, la strada potrebbe essere lunga. Ma Sharon, chissà, potrebbe anche farcela.
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rossella@mondadori.it

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