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Rassegna Stampa
11.08.2016 'Niente aiuti a Gaza, palestinesi oppressi': menzogne smentite dagli stessi terroristi di Hamas
Umberto De Giovannangeli intervista Rami Hamdallah

Testata:
Autore: Umberto De Giovannangeli
Titolo: «'Noi palestinesi ancora senza pace, per Gaza solo un pugno di aiuti'»

Riprendiamo dall' UNITA' di oggi, 11/08/2016, a pag. 8, con il titolo "Noi palestinesi ancora senza pace, per Gaza solo un pugno di aiuti", l'intervista di Umberto De Giovannangeli a Rami Hamdallah.

"Noi palestinesi ancora senza pace, per Gaza solo un pugno di aiuti": questa l'insostenibile tesi di Rami Hamdallah e ripresa immediatamente da Umberto De Giovannangeli. A entrambi consigliamo la visione del video che abbiamo pubblicato oggi su IC, prodotto e diffuso dagli stessi terroristi di Hamas, che mostra il benessere diffuso nella Striscia di Gaza.

Un pugno di aiuti? A giudicare dal flusso enorme di fondi internazionali che consentono a Hamas di proseguire all'infinito la guerra contro Israele e ai suoi capi di arricchirsi non si direbbe.

Il resto dell'intervista contiene tutti i tradizionali pregiudizi contro Israele, descritto come Paese militarista che "occupa" le terrre poalestinesi. Una pessima prova per il quotidiano del PD, anche se ormai sono pochi a leggerlo, ritornato all'ideologia trinariciuta, nella quale Udg ha sempre navigato a suo agio.

Ecco l'articolo:

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Umberto De Giovannangeli

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Rami Hamdallah

Per decenni ha dominato l'agenda internazionale. Per anni è stata al centro dell'interesse mediatico mondiale. Per anni. Ma oggi la «Questione palestinese» sembra essere uscita di scena, salvo poi ricomparire nei radar dei media solo quando entra in azione a Gerusalemme Est o a Hebron un «lupo solitario» o quando, ad uno degli oltre seicento posti di blocco israeliani che frantumano in mille schegge territoriali la Cisgiordania, si consuma l'ennesimo episodio di sangue. E' una calma apparente quella che segna il presente in Terrasanta. Apparente, perché sotto l'immobilismo politico-diplomatico cova la cenere di una rabbia e di una frustrazione che segnano la quotidianità nei Territori occupati, soprattutto fra i giovani palestinesi: giovani acculturati, nati sotto l'ombra del Muro dell'apartheid - la Barriera di sicurezza per Israele - che percorre per oltre 700 chilometri la Cisgiordania, isolandola da Gerusalemme Est, frammentandola in mille schegge territoriali; giovani che sognano ancora un futuro di libertà. E che per realizzarlo continuano a resistere, contro tutto e tutti. La parola pace è ancora nel vocabolario politico di israeliani e palestinesi? A rispondere, in questa intervista esclusiva concessa a l'Unità è Rami Hamdallah, 58 anni, da tre primo ministro dell'Autorità nazionale palestinese, già rettore dell'Università nazionale An-Najah di Nablus.

Signor Primo ministro, che fine ha fatto la "causa palestinese"? «Continua a vivere, mi creda. Vive nella sofferenza di un popolo che da 49 anni è sotto occupazione e vive, ed è ciò che più conta, nella sua determinazione a non arrendersi. Vogliamo la pace, certo, ma una pace nella giustizia».

Cosa significa per Lei una "pace nella giustizia"? «Significa garantire un futuro normale ai nostri giovani. Significa veder realizzato il diritto del popolo palestinese ad uno Stato indipendente, con una piena sovranità su tutto il suo territorio nazionale. Uno Stato con Gerusalemme Est come capitale e senza insediamenti al proprio interno. Mi lasci aggiungere che la nascita di uno Stato palestinese a fianco dello Stato d'Israele con il ritorno ai confini del 1967, è contemplata da due risoluzioni Onu, dalla "Road Map" (il piano di pace di Usa, Ue, Russia, Onu, ndr). Illegale non è la nascita dello Stato di Palestina; illegale è la continuazione dell'occupazione israeliana».

Cosa imputa maggiorente alla comunità internazionale? «La distanza siderale tra le parole e i fatti. A parole, non c'è leader mondiale che non riconosca il diritto dei palestinesi ad uno Stato indipendente, non c'è documento internazionale, dichiarazione che non contenga l'esplicito riferimento ad una pace fondata sul principio "due popoli, due Stati". Parole, per l'appunto. Perché nei fatti nulla di concreto si è tentato per impedire a Israele di svuotare di ogni significato questa formula. La comunità internazionale continua ad affermare che gli insediamenti israeliani in Cisgiordania sono illegali. Eppure si continua a ripetere "non è il momento" per agire contro questo attentato quotidiano alla pace. Ma chiedo: ma quando dovrebbe scoccare questo momento?. Ogni giorno Israele programma realizza l'ampliamento degli insediamenti; ogni giorno vengono confiscate terre palestinesi, distrutte abitazioni o strutture pubbliche, comprese quelle di agenzie delle Nazioni Unite. Il cammino del processo di pace è lastricato da buoni proponimenti, da dichiarazioni coraggiose. Ma mai di fatti. Non c'è niente da inventare: su ogni questione strategica di un accordo di pace tra israeliani e palestinesi - dai confini al controllo delle risorse idriche, dallo status di Gerusalemme alla sicurezza - esiste una sterminata documentazione che definisce una soluzione praticabile. Cib che manca è la volontà politica di realizzare questo disegno».

L'impressione è che la stabilità del Medio Oriente, oggi minacciata dal Califfato islamico e dalla guerra Infinita in Siria, possa fare a meno di una soluzione politica della "Questione palestinese". «E' una visione errata, che non tiene conto della storia, e che porta con sé l'illusione che l'attuale status quo possa perpetrarsi all'infinito. La causa palestinese è parte integrante, fondamentale, di qualsiasi politica che punti davvero alla stabilizzazione del Medio Oriente. Oggi si parla molto dell'Isis, come ieri di al-Qaeda. Ma una cosa è certa: quando del Daesh non si sentirà più parlare, la causa palestinese continuerà a vivere. Non è la geopolitica a farmi parlare così, ma la realtà dei fatti: questa è la nostra terra, la terra dei nostri avi, quella che lasceremo alle generazioni future. Neanche il più estremista tra i leader estremisti israeliani pub ragionevolmente pensare di poter deportare, e dove poi ?, un popolo intero. La causa palestinese esiste perché esiste il popolo palestinese. Un popolo fiero della propria identità nazionale, della propria cultura. E per questo destinato, un giorno non lontano a vincere. E a vincere "per" e non "contro". Per realizzare uno Stato e non per cancellarne un altro". E a vincere per realizzare uno Stato democratico: nonostante l'occupazione, il prossimo 8 ottobre in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza si svolgeranno elezioni amministrative che riguarderanno oltre 400 municipalità e consigli locali. Si tratta di una grande prova di democrazia praticata da un popolo sotto occupazione».

Se la Cisgiordania soffre, Gaza muore. Le chiedo: cosa ne è della ricostruzione della Striscia dopo la guerra di due estati fa? «Anche qui: promesse tante, fatti molto meno. Ad oggi, abbiamo ricevuto solo il 28% dei 4,9 miliardi di dollari promessi dalla comunità internazionale nell'ottobre del 2014, a Gaza. Eppure siamo riusciti a rimettere in sesto il 95% delle case distrutte. Abbiamo rimosso e riciclato 2 milioni di tonnellate di materiali da case ed edifici distrutti. Abbiamo anche ripristinato il 95% delle reti elettriche che gli israeliani distrussero. Ma tutto questo non pub bastare per ridare vita a Gaza. Perché questa vita è negata dal blocco israeliano che dura da anni, una punizione collettiva che confligge con le norme del Diritto umanitario internazionale e con la Convenzione di Ginevra».

Signor Primo ministro, cosa si sente di dire oggi a Israele, all'opinione pubblica prim'ancora che alla leadership politica e di governo? «Che una pace nella giustizia è nell'interesse del popolo israeliano e non una concessione al "nemico", oltre che un diritto inalienabile per il popolo palestinese. La creazione di uno Stato palestinese è la garanzia più grande per la sicurezza d'Israele. Una garanzia, non una minaccia. Lo Stato di Palestina sarà espressione di una società plurale, qual è quella palestinese, uno Stato che rispetterà e garantirà i diritti delle minoranze religiose. Un modello che è agli antipodi di quello, fondato sulla più feroce dittatura della sharia, prospettato dallo Stato islamico. Mi lasci aggiungere un'ultima cosa: sono trascorsi ventiquattro anni da quando due grandi leader parlarono di una "pace dei coraggiosi" e indicarono la strada per realizzarla: quei due leader erano Yasser Arafat e Yitzhak Rabin. Quel cammino va ripreso e portato a termine anche in loro nome».

Per inviare la propria opinione all' Unità, telefonare 06/87930901, oppure cliccare sulla e-mail sottostante


lettere@unita.it

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