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Rassegna Stampa
22.09.2013 Iran: il quotidiano del PD si augura una politica del sorriso
L'opinione di Pasquale Ferrara

Testata:
Autore: Pasquale Ferrara
Titolo: «Iran, l'Occidente non ripeta i vecchi errori»

Sull'UNITA' di oggi, 22/09/2013, a pag.15, con il titolo "Iran, l'Occidente non ripeta i vecchi errori " l'opinione di Paquale Ferrara, che il quotidiano del PD presenta come " segretario generale Istituto  universitario europeo ", del quale si ignorava l'esistenza. La titolazione poteva essere approppriata, è vero, soprattutto gli Usa, hanno commesso da Carter in poi molti errori di sottovalutazione nei confronti della teocrazia fondata da Khomeini, non rendendosi conto del fatto che l'Iran, anno dopo anno, stava diventando il centro mondiale del terrorismo.
Invece no, il titolo va letto nel senso opposto, l'Occidente deve cominciare la politica del sorriso, l'arrivo di Rohani, il moderato, al posto di Ahmadinejad, è il nuovo futuro.Il pezzo vale la penna di essere letto per l'uso che l'autore fa delle parole.
Su Israele, per esempio, scrive
" ..c’è la tensione con Israele, ", e bravo Ferrara, definisce "tensione" il rapporto dell'Iran con Israele come se non fosse mai stata proclamata la volontà di cancellarlo dalle carte geografiche. Ma tutto il pezzo è untuosamente servile. La nostra politica estera sono anni che procede verso il basso, la posizione del PD, se fosse da solo al goveno, sarebbe ancora più negativa.
Ecco il pezzo:

Pasquale Ferrara

Hassan Rohani, nuovo presidente della repubblica islamica dell'Iran, sostiene di avere ricevuto , con la sua investitura elettorale, una sorta di mandato negoziale popolare nei riguardi dell’Occidente e degli Stati Uniti in particolare. Se si vuole, si tratta di un’interessante «forzatura», di cui sarebbe irragionevole non cogliere le potenzialità. Il rischio è che Rohani venga a trovarsi nelle stesse condizioni in cui si trovò Khatami nel corso del suo secondo mandato presidenziale (2001-2005), e cioè a lanciare offerte di collaborazione non corrisposte e pertanto politicamente indifendibili in termini di politica interna. D’altra parte, Khatami – ritenuto, superficialmente, una sorta di Gorbachov persiano - sostenne, senza convincere troppi, che il programma nucleare avviato dall’Iran aveva scopi esclusivamente civili. La storia della «policy review» (cioè della revisione di strategia) dell’Occidente nei confronti dell’Iran è lunga, anche se i frutti sono stati, generalmente, scarsi. Obama provò a cambiare registro con il discorso «al popolo e al governo iraniano», tenuto il giorno del Nowruz, il 20 marzo del 2009. L’intervento del presidente fu fortemente centrato sul concetto del rispetto tra i due Paesi e sul ruolo che l’Iran può avere sul piano regionale facendo emergere, almeno nelle intenzioni, una rottura rispetto non solo alla precedente amministrazione, ma al complesso delle relazioni Usa-Iran dopo la Rivoluzione del 1979. La risposta dell’Iran di Ahmadinejad fu a dir poco deludente. I negoziati sul programma nucleare di Teheran – condotti con l’Iran nel formato 5+1, e cioè Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia a Germania - si sono sviluppati in una lunga serie di incontri che hanno fatto registrare pochi progressi. L’intervento di altri Paesi, come quello tentato da Turchia e Brasile nel 2010, hanno prodotto una sorta di cortocircuito che ha reso la matassa ancora più aggrovigliata. Ci troviamo, con la presidenza Rohani, a un punto di svolta? Certamente sono cambiati i toni, il che non è poco, in una regione del pianeta – come quella del Medio Oriente – dove la retorica può facilmente far scattare una scintilla fatale. Tuttavia la distensione dei toni politici è condizione necessaria, ma non certo sufficiente perché si avvii un reale «dialogo critico» su tutte le questioni sospese: a parte il programma nucleare, c’è la tensione con Israele, il sostegno a Hezbollah e a Hamas, l’appoggio ad Assad, il pericoloso confronto con Arabia Saudita,Qatar, Emirati Arabi. Per non menzionare la transizioni tuttora aperte e ben lungi dall’essere concluse in Iraq e in Afghanistan. È interessante osservare come alla percezione occidentale di una «minaccia» iraniana a tutto campo corrisponda un’uguale e simmetrica sensazione di «accerchiamento » da parte dell’Iran. Durante la fase più acuta delle operazioni militari americane in Iraq e in Afghanistan, politologi sagaci solevano ripetere, tra il serio e il faceto, che l’Iran confinava, a oriente e a occidente, con gli Stati Uniti. L’Iran ha, a livello regionale, un ruolo politico e strategico oggettivo, ma non può certo coltivare progetti egemonici, non avendo, in realtà, le «capacità» militari ed economiche per poterli sostenere nel lungo periodo. L’Amministrazione americana, nel corso degli anni 2000, ha alternato alle politiche di «cambio di regime» a Teheran aperture di negoziato su questioni specifiche (per esempio, lotta comune al narcotraffico), all’approvazione di sanzioni sia nei consessi multilaterali che unilaterali. Èdifficile vedere in questa serie di misure una strategia coerente. Le aperture di Rohani vanno lette nel contesto della storica ricerca di un «riconoscimento » da parte di Washington dell’Iran come interlocutore diretto, e non per il tramite di formati negoziali che ne diluiscano la rilevanza. Se questo è il prezzo da pagare per costruire condizioni di praticabilità non dico della pace, ma quanto meno di una «tregua prolungata» nel martoriato Medio Oriente, forse, pur nella consapevolezza del rischio, varrebbe la pena pagarlo.

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