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Rassegna Stampa
11.08.2013 Per i palestinesi 'negoziare' significa imporre precondizioni senza offrire niente in cambio
e pretendere che vengano accettate. Udg intervista Yasser Abed Rabbo

Testata:
Autore: Umberto De Giovannangeli
Titolo: «'L'ultima chance per la pace con Israele'»

Riportiamo dall'UNITA' di oggi, 11/08/2013, a pag. 12, l'intervista di Umberto De Giovannangeli a Yasser Abed Rabbo dal titolo "«L'ultima chance per la pace con Israele» ".


Yasser Abed Rabbo

L'intervista mette bene in luce quale sia la posizione dei palestinesi nei confronti dei negoziati con Israele.
Non basta la liberazione di 104 criminali palestinesi, Israele deve accettare il diritto al ritorno dei profughi, la cessione di Gerusalemme Est e i confini del '67. Che cosa offrono in cambio i palestinesi? Nulla, a parte il fatto di accettare di negoziare. Ma, a questo punto, accettate tutte le precondizioni imposte, su che cosa dovrebbe trattare Israele? Forse sul fatto di permettere ai palestinesi di cancellarlo dalle carte geografiche senza tentare di difendersi?
Ecco l'intervista:

Il suo nome è legato ad uno dei più seri tentativi di delineare un compiuto piano di pace tra palestinesi e israeliani, I'«Iniziativa di Ginevra», messo a punto assieme a l'ex leader del Meretz, e più volte ministro israeliano, Yossi Beilin. Per questo, e non solo per l'importante incarico ufficiale che ricopre - segretario del Comitato esecutivo dell'Olp - Yasser Abed Rabbo è una voce autorevole per inquadrare la ripresa del negoziato di pace israelo-palestinese, che dopo la prima tappa di Washington, riprenderà mercoledì prossimo a Gerusalemme. «Sappiamo bene - dice Rabbo a l'Unità - che abbiamo di fronte a noi enormi difficoltà, specialmente perché Israele è guidato da un governo di destra, in un momento di forte crescita dei coloni, mentre il mondo arabo è segnato da profonde divisioni e conflitti che finiscono per indebolire la causa palestinese». Tuttavia, aggiunge l'ex ministro dell'Anp, «il tema dei negoziati ha una grande importanza, perché significa liberarsi dall'occupazione. Nelle condizioni attuali, il popolo palestinese è propenso a proseguire i colloqui, tuttavia, esso non si fida delle intenzioni di Israele e la sua reale volontà di raggiungere una soluzione. Perciò, la possibilità che abbiamo è quella di impiegare tutte le energie e l'aiuto della comunità internazionale al fine di raggiungere una soluzione e liberarci dall'occupazione. È una via strettissima, ma dobbiamo provare a percorrerla, anche perché abbiamo riscontrato una rinnovata attenzione dell'amministrazione Obama a riportare la questione palestinese, e i negoziati con Israele, ai primi posti nell'agenda mediorientale degli Usa».
Il 14 agosto I negoziati diretti tra Israele e I'Anp riprenderanno a Gerusalemme. Con quali prospettive?
«Ci sono alcuni punti specifici che verranno discussi nel corso dei negoziati. Questioni strategiche, per troppo tempo rinviate».
Ad esempio?
«Senza fare un riferimento ai confini del '67 non si può parlare della soluzione dei due Stati. Inoltre, c'è la questione di Gerusalemme e dei profughi. Nessun leader palestinese, neanche il più propenso al compromesso, potrebbe mai accettare un accordo di pace che escluda Gerusalemme. Non esiste uno Stato palestinese senza Gerusalemme Est come sua capitale».
II primo ministro Israeliano, Benjamin Netanyahu si dice impegnato seriamente per un accordo di pace, e una prova tangibile è la liberazione di detenuti palestinesi.
«Non sottovalutiamo atti del genere, ma c'è un punto che resta discriminante, e che investe altre scelte, compiute in questi giorni dal governo israeliano».
A cosa si riferisce?
«Ai nuovi piani di colonizzazione in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Una cosa deve essere chiara: pace e colonizzazione sono tra loro inconciliabili. Quando si tratta, le ruspe devono fermarsi».
Puntualizzazionl, per non dire pregiudiziali, che fan no parte della lunga e tormentata storia del negoziati israelo-palestinesi, storia di cui lei è uno dei protagonisti. Ma allora, qual è l'elemento di novità oggi?
«È I"attenzione americana. Sicuramente la leadership palestinese è consapevole della solidità del rapporto che lega Israele agli Usa, e dello stato di confusione in cui si trova la politica statunitense per quanto riguarda ciò che sta accadendo nella regione. Perché gli americani non avevano fatto i conti con la fase di cambiamento in cui vive il popolo arabo, che può rovesciare qualsiasi regime in breve tempo, come è successo in Egitto. Le opzioni a disposizione degli Usa nella regione sono limitate. Ma se i negoziati dovessero fallire, l'intero processo di pace entrerà in un tunnel buio, senza fine, e il più grande perdente sarà il popolo palestinese. Di questo dobbiamo avere piena consapevolezza: se falliamo, la questione palestinese precipita agli ultimi posti nell'agenda internazionale».
Sul piano Interno, quali sono a suo avviso, le priorità per la leadership palestinese?
«La crisi economica, l'emergenza sociale, la mancanza di lavoro per i giovani. E, sul piano politico, occorre lavorare per un governo di riconciliazione aperto ad Hamas».
Il segretario di Stato Usa, John Kerry, ritiene possibile raggiungere un accordo dl pace entro nove mesi. È una speranza eccessiva?
«Su ogni contenzioso aperto sono stati prodotti, nel corso degli anni, montagne di documenti che delineano un compromesso sostenibile. A difettare non sono state le idee, ma la volontà politica di attuarle. È su questo che si gioca l'ultima "sfida" della pace».

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