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Rassegna Stampa
14.07.2013 Al Jewish Museum di Londra una mostra sulla cantante Amy Winehouse
cronaca di Simone Porrovecchio

Testata:
Autore: Simone Porrovecchio
Titolo: «Si chiamava Amy: la brava ragazza ebrea in mostra a Londra»

Riportiamo dall'UNITA' di oggi, 14/07/2013, a pag. 20, l'articolo di Simone Porrovecchio dal titolo "Si chiamava Amy: la brava ragazza ebrea in mostra a Londra".


Amy Winehouse

Il titolo della grande mostra aperta al Jewish Museum di Londra dedicata a Amy Winehouse potrebbe portare il titolo di «Amy, la figlia perduta». Si chiama invece: Amy Winehouse: A Family Portrait, (Jewish Museum, Londra, fino al 15 settembre) e rende comunque molto bene il senso dell'esibizione. Un ritratto familiare, intimo, senza dubbio toccante di una delle artiste più grandi della musica contemporanea, e tra le più tragiche. Foto, moltissime, video, cd, oggetti, abiti, naturalmente, il mondo intimo di Amy Winehouse, cosi come lei lo ha lasciato nella sua grande casa londinese, il 23 luglio del 2011. L'oggetto forse più sorprendente del Family Portrait organizzato dal Museo è una grande valigia nera. LI dentro Amy ci ha conservato nel corso degli anni le foto più care, le più intime, gli scatti occasionali di familiari, amici, luoghi, frammenti di ricordi. Quella valigia, come spiega il fratello Alex Winehouse, «era il suo archivio privato della consolazione, il baule del tesoro dei momenti felici, diventati negli ultimi anni sempre più rari». La gran parte della collezione in mostra è stata donata dalla famiglia Winehouse al Jewish Mu-sum di Londra l'anno scorso. La scelta non è un caso: nelle intenzioni dei familiari non solo c'è l'esigenza di far conoscere al mondo la Amy senza trucco e senza droghe in corpo, ma anche quella di sottolineare, e ricordare, le radici ebraiche della famiglia Winehouse. Radici cui Amy era, sorprendentemente, legatissima. Gli antenati ebrei di Amy lasciarono la Russia Bianca alla fine del 1800 per emigrare in Inghilterra. L'infanzia è normale. Ma le radici spezzate devono pesare in qualche modo sulle dinamiche familiari. Da bambina a Southgate, nella periferia, verde e benestante, nord di Londra, Amy divora fumetti, soprattutto Snoopy, e ascolta musica. Ininterrottamente. Da adolescente scopre i romanzi dello scrittore e giornalista americano morto suicida nel 2005 Hunter S. Thompson, ai cui tragici personaggi Amy finisce per assomigliare sempre di più. Amy è morta a ventisette anni. Le cause accertate sono avvelenamento da alcol con 4,16 per mille di alcol nel sangue. Più di cinque volte al di sopra del limite perla guida. Nel suo appartamento sono state trovate tre bottiglie di vodka, vuote. Senza alcuna sostanza illegale. I risultati dell'inchiesta darebbero dunque ragione alla famiglia della cantante, che sostiene che lei aveva smesso di drogarsi e che ad ucciderla sia stato il consumo di alcol dopo un periodo di astinenza. Ma nella mostra, e questo è il motivo per cui è nata, manca ogni riferimento agli abusi, ai crolli, alle riabilitazioni tentate e mai portate a termine, alle droghe. Mancano anche le celebri risse con i paparazzi, e Ie immagini disturbanti di Amy malata, anoressica, segnata dall'alcol, consumata dai farmaci. Le centinaia di foto in mostra sono per la maggior parte inedite. E bellissime. Amy con gli amici, in posa nel suo appartamento di cui era orgogliosa nel quartiere londinese di Camden, alle feste di famiglia, anche religiose, i Barmitzvah, le immagini della nonna Cynthia, o semplicemente appoggiata al muro di casa, senza trucco, triste, bellissima. Scatti dal quotidiano di una famiglia ebrea la cui lotta ora si concentra soprattutto sulla difesa della memoria della figlia, della sua eredità artistica, del suo posto nell'arte. «Per noi si tratta soprattutto di questo: recuperare la dignità di Amy», così il fratello Alex. «Sono molti i visitatori a lasciare il museo con gli occhi lucidi», racconta la curatrice Elizabeth Selby. «Ogni volta che entro in una stanza dell'esibizione scopro un dettaglio nuovo. Proprio come succede in una casa che è vissuta». Così l'obiettivo della mostra è raggiunto in pieno: restituire la dimensione privata e autentica. «L'idea di una mostra su Amy in realtà all'inizio riguardava solo gli abiti. Poi, per fortuna, il progetto è diventato più ampio e organico. Senza l'impegno della famiglia Winehouse questo evento non sarebbe stato possibile». La famiglia Winehouse, però, non era credente. Non è questo il punto, come chiarisce in una delle sue lettere in mostra la stessa Amy riferendosi alla famiglia: «non siamo credenti, ma siamo tradizionali. Una tipica famiglia ebrea londinese». «La nostra speranza e augurio è che questa mostra' sveli finalmente al mondo la normalità di Amy», cosi il fratello Alex. «Quel lato del volto che lei stessa non ha mai voluto scoprire, e che era il più bello. La normalità di Amy era ancora più magica della sua musica». II prossimo progetto in nome di Amy? La Amy Winehouse Foundation per la sensibilizzazione e campagne di prevenzione sui pericoli dell'abuso di alcol e droghe.

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