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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Rassegna Stampa
27.01.2013 Quell'unico popolo autenticamente europeo..
Commento di David Meghnagi

Testata:
Autore: David Meghnagi
Titolo: «La strategia bellica: salvare gli ebrei obiettivo secondario»

Riprendiamo dall'UNITA' di oggi, 27/01/2013, a pag.23, con il titolo "La strategia bellica: salvare gli ebrei obiettivo secondario", il commento di David Meghnagi, come sempre acuto e diretto nel richiamo alla realtà di Israele.
Peccato che l'UNITA', negli altri 364 giorni, se ne dimentichi.
Ecco l'articolo:

Da evento tragico della lunga serie di crimini nazisti, la Shoah ha progressivamente assunto un significato centrale e paradigmatico nella storia e nella memoria del Novecento. Come avevano compreso in modi diversi, molti esuli tedeschi in America, sulla scia delle geniali intuizioni di Benjamin e delle sue tesi sulla storia, la frattura operata da Auschwitz, coinvolgeva ogni area del pensiero. Non solo per l’entità della tragedia,maper i modi in cui era stata attuata, i luoghi in cui si era consumata. Dopo Auschwitz nulla più poteva essere declinato come prima. Anche se in molti continuarono a illudersi per un altro paio di decenni che il progresso avrebbe ripreso la sua marcia inarrestabile. Da qui il significato profondo che ha progressivamente assunto la data del 27 gennaio nel processo di formazione di un’identità europea che abbia come sfondo i valori nati sulle ceneri della Seconda guerra mondiale. L’Europa si è scoperta tale dopo che l’unico popolo autenticamente europeo l’aveva immaginata e pensata, era stato annientato. Una celebrazione che voglia essere all’altezza del significato e che non voglia colludere con nuove forme di rifiuto, comunque mascherate e argomentate, dovrebbe assumere tale aspetto come suo riferimento. Solo in questo modo si eviterebbe, almeno in parte, il pericolo di collocare il ricordo della tragedia ebraica e di altre minoranze perseguitate come un elemento «esterno». In mancanza di una tale comprensione e assunzione piena, il 27 gennaio rischia di essere svuotato del suo significato profondo, di diventare un evento che riguarda esclusivamente gli ebrei, riproponendo in forme nuove una dialettica del rifiuto che non è mai scomparsa. Nel corso della guerra per non dare adito all’accusa nazista che la guerra «si combattesse per gli ebrei», per indifferenza o per antisemitismo, l’idea di bombardare le ferrovie che conducevano ad Auschwitz non fu mai presa in seria considerazione. La salvezza degli ebrei era per gli Alleati un obiettivo che veniva dopo. Qualunque azione che non avesse un obiettivo specificamente militare, o che potesse «rallentare» la conclusione della guerra, era da scartare. Nemmeno la minaccia di bombardare più a fondo le città tedesche, o per contrasto la possibilità di risparmiarle nel caso si fossero ribellate contro lo sterminio nei campi, fu mai presa in seria considerazione. Per ragioni analoghe, le forze della Resistenza non furono mai chiamate ad agire per salvare gli ebrei. Le difficoltà tecniche sollevate da alcuni, l’alto numero di vittime che i bombardamenti sui campi avrebbero comportato senza garanzia di risultati, non eliminano il dato più certo e inquietante. Il salvataggio di milioni di ebrei era un elemento secondario della strategia bellica. L’aviazione alleata non si pose problemi quando si è trattato di bombardare le fabbriche della Buna, situate a pochi chilometri dai campi di sterminio, mentre per questi ultimi si è limitata a fotografare dall’alto. Inoltre, per non rendere pubblica la penetrazione dei servizi di comunicazione nazista, le radio alleate non denunciarono l’imminente deportazione degli ebrei romani, né chiamarono la Resistenza a danneggiare la rete tranviaria. Nel caso di una denuncia pubblica, difficilmente il Vaticano, che già pensava al dopoguerra, avrebbe potuto tacere - come poi invece accadde nonostante la gente da deportare fosse stata concentrata a forza a poche centinaia di metri da San Pietro. LATEOLOGIADELDISPREZZO È doloroso a dirsi. L’assunzione di una presa pubblica di coscienza nella Chiesa, con il conseguente abbandono della teologia del disprezzo, ha avuto inizio dopo la tragedia dello sterminio. Ha avuto un «prezzo» spaventoso: la morte di un milione e mezzo di bambini. Dopo l’arresto di Mussolini, Badoglio e il re non abolirono le leggi razziste. Non si preoccuparono di dare indicazioni alle prefetture di distruggere gli elenchi degli ebrei, né di informare le comunità ebraiche dei pericoli cui stavano per andare incontro. Dopo l’8 settembre pensarono solo a fuggire lasciando il paese allo sbando. Per quanto manchino ancora studi approfonditi in materia (il che può essere considerato una spia del problema), laResistenza non si pose il problema della deportazione degli ebrei, né fu chiamata dagli Alleati a farsene direttamente carico. Il Comitato di Liberazione Nazionale (Cln) non emanò specifici decreti o minacce contro chi si fosse macchiato di crimini contro gli ebrei. Nella rappresentazione collettiva della cultura progressista europea e italiana degli anni cinquanta e inizi sessanta, gli ebrei sopravvissuti erano considerati in primo luogo dei «salvati ». A parte i soldati della «Brigata ebraica» autorizzata dal governo britannico solo sul finire della guerra, gli ebrei in quanto combattenti non esistevano. Passò molto tempo perché l’immagine stereotipata dell’ebreo che si consegna come «carne da macello», fosse sostituita con altre più fondate, che tenesse conto della presenza di oltre un milione di combattenti ebrei della guerra antinazista negli eserciti alleati e nella Resistenza. In Italia, su una presenza ebraica intorno all’uno per mille dell’intera popolazione, privata dei mezzi di sussistenza e braccata in ogni luogo, circa mille combattenti ebrei lottarono nella Resistenza. In Unione Sovietica, dove l’antisemitismo era declinato come antisionismo, per non «turbare» la pace interna dei popoli che erano entrati a far parte della grande «famiglia sovietica», bisognava tacere sul fatto che le stragi sul fronte orientale erano state attuate con la compiacenza e la collaborazione di vasta parte delle popolazioni locali. Quando non furono direttamente attuate per conto proprio. Dopo Auschwitz il cerchio del nuovo antisemitismo si chiude con l’accusa agli ebrei di voler fissare gli altri popoli in un sentimento di colpa perenne per avere acquisito «privilegi» per se e per Israele. In questa logica perversa che ricorda molto quella più antica, lo Stato degli ebrei diventa l’Ebreo degli Stati. Basta declinare l’antisemitismo come antisionismo e il gioco è fatto. In realtà come dimostrano gli inquietanti sviluppi della politica nucleare iraniana, il diritto di Israele a esistere, la sua sicurezza sono la condizione della possibilità di un dialogo rinnovato e autentico fra le due sponde del Mediterraneo, fra l’Occidente e l’islam. L’Europa e il mondo arabo, l’Occidente e l’islam potranno tornare a parlarsi, se Israele è presente fra loro come testimone dei loro e dei propri lutti.

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