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Rassegna Stampa
22.07.2012 Gli analisti del 2+2 fa 4 per capire ciò che accade in Siria
Sono quelli scelti da Umberto de Giovannangeli

Testata:
Autore: Umberto De Giovannangeli
Titolo: «Gli analisti: in ballo i futuri equilibri del Medioriente»

Sull'UNITA' di oggi, 22/07/2012, a pag.17, con il titolo " Gli analisti: in ballo i futuri equilibri del Medioriente", Umberto De Giovannangeli cita alcuni analisti per spiegare quel che accade in Siria. Peccato che i prescelti siano gli esperti del ' 2+2  fa 4', quelli che, a cose avvenute, ci spiegano come sono avvenute, convinti di essere così dei grandi analisti. Il guaio è che i giornali ci credono, non solo l'Unità.
Nel pezzo Udg ne cita due molto noti, Gilles Kepel e Olivier Roy, in quanto a friggitori di aria non sono secondi a nessuno, anzi, no, lo sono rispetto al terzo 'esperto' individuato da Udg, tale Nabil El Fattah, il quale dichiara: "
l’esito della guerra in atto in Siria è destinato a modificare il volto del Medioriente, come e, per certi aspetti, di più di quanto hanno fin qui fatto le Primavere arabe. La posta in gioco è un nuovo equilibrio di potere tra il campo sunnita e quello sciita. Una posta strategica." Che genio !  Kepel dichiara che Israele sostiene Assad, in quanto 'male minore', ma si guarda bene dal dire in che modo. Sono questi gli analisti che dovrebbero aiutale i lettori dell'UNITA' a capire ciò che accade in Siria. Poveretti !

Gilles Kepel                                        Olivier Roy

Ecco il pezzo:

La brutale repressione messe in atto da Bashar al-Assad segna un punto di non ritorno per il regime baathista. Al tempo stesso, però, è evidente che l’orrore e lo sdegno per ciò che da 16 mesi avviene in Siria, non porteranno a un intervento militare straniero». L’enigma siriano – tra raccapriccio impotenza - visto da uno dei più autorevoli studiosi europei dell’Islam e del mondo arabo: Gilles Kepel, 57 anni, direttore della cattedra Moyen-Orient Méditerranée dell' Institut d'études politiques de Paris. «La partita siriana - dice - si gioca tra le forze interne al Paese. E questo moltiplica le responsabilità della variegata opposizione ad Assad». Una tesi, quella della partita interna, che non trova pienamente d’accordo un altro dei più illustri studiosi di Islam e mondo arabo: Olivier Roy, orientalista dell'Istituto europeo di Fiesole, presso la cattedra mediterranea al Robert Schuman Centre for Advanced Studiess: «La grande novità e il grande pericolo della crisi siriana – rileva Roy - è il confronto tra due nuovi protagonisti, che finora avevano mantenuto un atteggiamento di pacifica convivenza pur appartenendo a due schieramenti opposti: l’Iran e la Turchia. I due Paesi sono oggi direttamente coinvolti nella crisi siriana. La Turchia in nome della sua nuova politica di grande potenza regionale (e non in quanto membrodella Nato). L’Iran invece non aveva scelta: la caduta del regime siriano sarebbe una catastrofe per Teheran. È infatti il suo unico alleato arabo, il solo legame via terra con gli Hezbollah libanesi, che rappresentano la testa di ponte iraniana nella regione. Senza Damasco, l’intera politica regionale dell’Iran crollerebbe. Una politica che consiste nel posizionarsi come l’ultimo leader del “fronte del rifiuto” verso Israele e come difensore di un nazionalismo arabo tradito dagli altri Paesi. Di fatto il regime che sostituirà il clan Assad sarà comunque sunnita e anti-iraniano, indipendentemente dal suo colore politico. Teheran ha quindi mandato in Siria denaro, consiglieri e armi, e non esiterà a fare di più, anche a costo di mettere in gravi difficoltà il suo alleato Hezbollah». «A rendere impensabile un intervento militare straniero – incalza Kepel – è anche il fatto che sono ancora tanti gli attori mediorientali a ritenere il regime di Assad, soprattutto se indebolito, come il “male minore” e comunque preferibile all’incognita del dopo-Bashar. E tra questi attori “conservativi” c’è Israele».Malo studioso francese torna sulla partita interna: «Nonostante le defezioni subite e il rafforzamento militare dei ribelli, Assad non è ancora fuorigioco. A meno che – conclude Kepel - l’opposizione non riesca a convincere le minoranze che, in caso di vittoria, le rispetterà e non istituirà un regime islamista. E gli alawiti, ottenute queste garanzie, non scarichino il clan di Assad». Una partita politica, dunque, e non solo militare. Ma è proprio la militarizzazione di una parte dell’opposizione che non convince Haytham Manaa, scrittore siriano, portavoce della Commissione araba per i Diritti umani e presidente del Consiglio di coordinamento nazionale, una delle principali formazioni dell’opposizione in Siria «Il primo risultato negativo dell’uso delle armi – afferma - è stato quello di minare l’ampio supporto popolare necessario per trasformare la rivolta in una rivoluzione democratica. Esso ha reso molto più difficile integrare posizioni in reciproca competizione – rurali-urbane, laiche- islamiste, vecchia opposizione-gioventù rivoluzionaria. Il ricorso alle armi ha dato vita a gruppi frammentati che non hanno alcun programma politico. La Turchia ha addestrato dissidenti armati sul suo territorio e uno di questi gruppi ha annunciato la nascita dell’Esercito Siriano Libero sotto la supervisione dell’intelligence militare turca. Molti militanti all’interno della Siria ora portano il logo “Esercito Libero”, ma al di là del nome non c’è alcun coordinamento né armonia politica organizzata ». «Una cosa è certa – annota Nabil El Fattah, già direttore del Centro di Studi Strategici di Al Ahram del Cairol’esito della guerra in atto in Siria è destinato a modificare il volto del Medioriente, come e, per certi aspetti di più di quanto hanno fin qui fatto le Primavere arabe. La posta in gioco è un nuovo equilibrio di potere tra il campo sunnita e quello sciita. Una posta strategica».

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