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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Rassegna Stampa
16.09.2011 Carter + Udg: quando l'intervista è un assolo
Entrambi vogliono il ritorno alle frontiere del '67

Testata:
Autore: Umberto De Giovannangeli
Titolo: «A Israele dico: accetti uno Stato palestinese sulle frontiere del '67»

Sull' UNITA' di oggi, 16/09/2011, a pag.8/9, Umberto De Giovannangeli intervista Jimmy Carter, il titolo è " A Israele dico: accetti uno Stato palestinese sulle frontiere del '67". Come Sergio Romano anche Udg merita la medaglia "Menzogna Omissiva", visto che si è ben guardato dal ricordare perchè nel '67 sono cambiate le frontiere.

La conversazione fra Umberto de Giovannangeli che fa le domande e l'ex Presidente Carter che risponde, sembra in realtà un monologo. Entrambi giurano che pensano solo alla pace, danno l'impressione di avere a cuore Israele, si preoccupano del suo futuro, per carità che non diventino i musulmani maggioranza, altrimenti addio Israele, ma entrambi vogliono il ritorno alle frontiere del '67, quelle che si erano dimostrate indifendibili già allora, e che avevano spinto gli eserciti arabi a dichiarare guerra allo Stato ebraico.
Sono quelle frontiere che i pacifisti Udg e Carter esigono per Israele. E se finisse a schifio per Israele ? Pazienza, il calendario è vasto, vuoi vedere che saltera fuori un' altra giornata delle memoria ?
Complimenti all'UNITA', quotidiano non più del Partito, ma tanto vicino, può scriuvere ciò che vuole, gli amici di Israele all'interno dei DS hanno questo di buono, che stanno sempre a bocca chiusa, digeriscono tutto.
Ecco il pezzo:

Jimmy Carter con Arafat

"Resto convinto che la vera catastrofe per Israele sarebbe non rilanciare conconvinzione il negoziato di pace che porti alla costituzione di uno Stato palestinese. Lanon nascita di questo Stato sarebbe la vera catastrofe per Israele»."
Il suo contributo risultò decisivo per giungere agli accordi di Camp David (1979) che sancirono la pace fra Israele e l’Egitto. Nel 2002 ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace. Jimmy Carter per le sue posizioni critiche rispetto all’occupazione israeliana dei Territori palestinesi è stato tacciato di «simpatie pro-Hamas». Perchè ha osato scrivere che la politica di Israele nei Territori è «un sistema di apartheid, con due popoli che occupano lo stesso Paese ma che sono completamente separati l’uno dall’altro, con gli israeliani che dominano, opprimono e privano i palestinesi dei loro dirittiumanibasilari ». Nel recente passato, Carter Usa ha cercato di svolgere un ruolo di «pacificatore» nella martoriata Terrasanta. Ora gli occhi del mondo sono puntati sull’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che si aprirà il prossimo 20 settembre a New York: in quella sede, il 23 settembre, l’Autorità nazionale palestinese (Anp) del presidente MahmoudAbbas (Abu Mazen)presenterà la richiesta per il riconoscimento dello Stato di Palestina entro i confini del 1967.

Presidente, qual è la sua posizione inmeritoaquestopassaggiocruciale nell’eterno conflitto israelo-palestinese?
«Non è una decisione facile da prendere. Per quanto mi riguarda, resto convinto di due cose: la prima, è che la vera catastrofe per Israele sarebbe non rilanciare con convinzione il negoziato di pace che porti alla costituzione di uno Stato palestinese; la seconda convinzione, strettamente legata alla prima, è che la non nascita di questo Stato sarebbe la vera catastrofe per Israele».
Come calare queste considerazioni nel dibattito che avrà una sua concretizzazione al Palazzo di Vetro?
«In alternativa alla situazione di stallo attuale, a malincuore penso che si debba sostenere la mossa palestinese per ottenere il riconoscimento del proprio Stato alle Nazioni Unite. La speranza è che in questi giorni che ci separano dal 23 settembre possano determinarsi fatti sostanziali che permettano la ripresa del negoziato: la dirigenza palestinese ha lasciato aperto uno spiraglio su cui la diplomazia internazionale dovrebbe agire. Il tempo ci sarebbe ancora...». Riconoscere lo Stato palestinese è una scelta che va fatta anche se a “malincuore”. Perché?
«
Perché è la registrazione di un gravissimo stallo negoziale, di cui francamente è difficile sostenere che le responsabilità maggiori siano della dirigenza palestinese. Certo, meglio sarebbe portare avanti una proposta di pace globale e dettagliata dell’amministrazioneObama, main questomomento occorre riconoscere che i palestinesihanno poche opzioni alternative Resto convinto che l’opzione dei due Stati sia ancora la migliore, quella su cui concentrare tutti gli sforzi diplomatici. Ciò implica un "dare e avere" da parte di tutti. Di Israele, che dovrà riconoscere una Palestina indipendente su gran parte dei territori occupati nel 1967. Dei palestinesi, chedovranno accettareunragionevole compromesso sul diritto al ritorno dei profughi del ’48. E da parte dei vicini arabi, che dovranno riconoscere il diritto di Israele a esistere in pace. Per nessuno dei soggetti in questione la pace può essere a costo zero. E questo discorso mantiene la sua validità qualunque sarà la decisione che verrà assunta al Palazzo di Vetro. Per quanto riguarda il mio Paese, avrei preferito un voto favorevole, ma non credo proprio che ciò accadrà ».
Signor Presidente, perché la non nascita di uno Stato palestinese sarebbe la vera catastrofe per Israele. Su cosa fonda questa considerazione?
«Sulle tre opzioni alternative conseguenti alla soluzione di un solo Stato. Ognuna di queste opzioni avrebbe ricadute catastrofiche sul futuro di Israele e sulla stabilità dell’intero Medio Oriente.La prima opzione sarebbe quella di espellere forzatamente centinaia di migliaia di palestinesi dalla Cisgiordania, il che significherebbe attuare unavera e propria pulizia etnica. La seconda opzione è quella di negare ai palestinesi la parità dei diritti di cittadinanza, a partire dal diritto di voto. Ciò significherebbe imporre un vero e proprio regime di apartheid. La terza opzione: quella di riconoscere ai palestinesi parità di cittadinanza e dunque il diritto di voto».
Cosa c’è di catastrofico per Israele in questa opzione?
«La fine di Israele come Stato ebraico, ovvero l’autocancellazione di uno dei pilastri che sono a fondamento della nascita dello Stato d’Israele: il suo essere focolaio nazionale del popolo ebraico. Mi sembrano considerazioni realistiche, mosse da unasincera amicizia verso il popolo d’Israele. La politica sarebbe con ogni probabilità orientata dai palestinesi, più compatti rispetto agli israeliani che appaiono al proprio interno maggiormente divisi, e grazie alla crescita demografica maggioritari sul piano numerico in un futuro non lontano E contro la "bomba demografica" Non c’è Barriera di sicurezza e potenza militare che tengano. La nascita diuno Statodi Palestina in un quadro di garanzie negoziate è un investimento d’Israele sul proprio futuro».
Molto si discute sulla “Primavera araba”. C’è chi sostiene che siamo già entrati inunafase involutiva, di controrivoluzione. Un sogno si è infranto?
«La Primavera araba ha portato la speranza per la democrazia e la libertà nella Regione. E’ stata questa, la richiesta di diritti, di libertà, la leva delle rivolte in Tunisia come in Egitto. Quelle piazze hanno dimostrato che esistono dei valori universali che vanno poi calati nelle rispettive realtà. Siamo entrati nella fase della transizione e vedo anch’io i rischi di un arretramento. Ma quella speranza non è venuta meno. Molto dipenderà dalla convinzione con cui la Comunità internazionale, in particolareUsa ed Europa, sosterranno le forze del cambiamento in Medio Oriente e nel Nord Africa».
C’è il rischio che l’irrisolta “questione palestinese” possa essere usata dagli integralisti islamici per rilanciare lo scontro con Israele e assumere la guida della “Primavera araba”?
«Il rischio esiste ma continuo a credere che la “Primavera araba” possa ancora innescare unprocesso positivo che possa favorire il cambiamento anche nella prospettiva di un accordo di pace fra Israeliani e Palestinesi. Vedo un legame tra la soluzione della “questione palestinese” e lo sviluppo del processo democratico nel mondo arabo. Ma questa prospettiva sarebbe più concreta e ravvicinata se Israele si ritirasse dai territori occupati. Sarebbe un atto di coraggio e di lungimiranza e non certo una “resa al nemico ».

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