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Rassegna Stampa
08.05.2010 I rom in Italia come gli ebrei ad Auschwitz
Il paragone offensivo di Claudio Fava

Testata:
Autore: Claudio Fava
Titolo: «Sui binari del razzismo»

Su L'UNITA' di oggi, 08/05/2010, a pag. 20, un articolo di Claudio Fava dal titolo "Sui binari del razzismo", commenta la notizia di una circolare che prevede, da parte dei controllori dei treni italiani, la segnalazione di uomini e donne di etnia rom nelle carrozze (notizia quanto mai vaga, perchè potrebbe riferirsi al controllo dei clandestini). Fava azzarda un paragone fuori luogo, offensivo e storicamente ignorante: quello che avvenne agli ebrei 70 anni fa non ha nulla a che vedere con il problema dei clandestini oggi in Italia. Oltremodo offensiva è la scelta della foto che illustra il pezzo:  che cosa c'entra l'ingresso di Auschwitz ? Forse che i binari che traportavano i deportati ricordano all'UNITA' le ferrovie italiane di oggi ?
Ecco l'articolo:


L'Unità confonde i binari di Auschwitz con quelli delle FFSS.
A destra Claudio Fava.


Segnalare eventuali passeggeri di etnia giudea che salgano sui treni delle Ferrovie dello Stato; riportare i dati anagrafici dei suddetti giudei nell’apposito formulario; trasmettere alle autorità competenti la segnalazione per i provvedimenti del caso...». Se ci capitasse tra le mani una circolare di questo tono, sappiamo cosa accadrebbe: notisti, editorialisti, intellettuali, parlamentari di questa o quella parte, direttori, professori, sacerdoti, sindacati, papi, vescovi, ambasciatori... tutti giustamente indignati per quel refuso di burocrazia razzista che refusononsarebbe affatto: scriverebbero che in quel riferimento alla razza e ai giudei c’è lo specchio di un paese malato, ci sono i suoi umori profondi, l’instancabile ricerca di un diverso, di uno straniero su cui scaricare tossine e fatiche. In Europa ci direbbero, senza troppi fronzoli, che siamo diventati un paese di merda, razzista e omofobo, umile con i forti e miserabile con tutti gli altri. Avrebbero ragione? Certo che avrebbero ragione. Com’è allora che nessuno s’è indignato quando due giorni fa è saltata fuori la notizia di questa schedatura? Identica, parola per parola, al virgolettato che vi ho offerto all’inizio di questa pagina. Con un unico irrilevante dettaglio: la parola “Rom” al posto di quella “giudeo”. È accaduto su uno dei treni regionali che da Romabattono lentamente le campagne e i Castelli: un modulo che invita i controllori a segnalare e, naturalmente, a schedare i passeggeri di etnia Rom. Sfugge la ragione di questa richiesta: per farli arrestare? Per invitare gli altri passeggeri a tenere la mano sul portafogli? Per cambiare vagone? Qual è il motivo per cui un controllore dovrebbe chiedere a un viaggiatore in regola con il suo biglietto se è o meno un Rom? Quale pensiero storto sta dietro quella richiesta? In quale paese vivono i dirigenti delle ferrovie che si sono inventati questo surrogato della stella gialla da attaccare alle giacche dei romitaliani? E che razza (sì, razza) di gente siamo diventati noi italiani che ci strapperemmo i capelli se quel gesto di grossolana villanìa fosse stato esercitato contro gli ebrei, manon alziamo nemmeno gli occhi dal giornale quando scopriascopriamo che non di ebreima di zingari si tratta? Come ci hanno spiegato i nazisti settant’anni fa, il problema non sono gli ebrei, i neri o gli zingari ma il concetto alto e patriottico di razza. In quel patetico formulario distribuito dalle ferrovie italiane ciò che offende è proprio questo: la parola razza, la pretesa che un cittadino, un viaggiatore, un uomo possa essere identificato (e poi, forse, discriminato) per il sangue che si porta dentro, per il profilo del naso, la linea degli zigomi, il taglio degli occhi, il colore dei capelli… In questo siamo cambiati. Abbiamo accettato, senza protestare, l’idea che esistano molte razze, e che dentro questa parola oscena ci siano ragioni oggettive di diversità: diversi i destini, diversi i diritti, diversa la dignità. Più o meno quello che accadeva mezzo secolo fa con i siciliani e i calabresi che s’imbarcavano su un vapore. Mio figlio ha sei anni, lo abbiamo adottato. Cittadino italiano ma nato in una città dal suono strano. L’ho iscritto in palestra, e in attesa della sua prima gara è arrivata la formale richiesta della federazione sportiva: per essere tesserato e partecipare alle gare, il bambino dovrà produrre il permesso di soggiorno. Poco importa che mio figlio sia italiano, che non gli spetti esibire certificati nè permessi: ma se non lo fosse? Se un bambino di sei anni (turco, rom, ebreo, nero) vuole iscriversi in una piscina o in una palestra, cosa gli tocca fare e dire? E se a suo padre quel permesso è scaduto, cosa gli infliggiamo? Niente scuola, niente palestra, niente ospedale, accontentati di star qui, tra noi ariani, che per te è già tanto… Insomma, il problema non sta nella zucca di qualche funzionario delle ferrovie, convinto che per tenere più pulite le tradotte dei treni locali è bene schedare i passeggeri. Il problema non è quell’eccesso di zelo un po’ ottuso, né la giustificazione subito fornita dalle Ferrovie Italiane («il modulo esiste, ma tanto non l’abbiamo mai usato...»): il problema è che dentro un paese di caste e razze noi ci stiamo bene. E’ un’immagine che ci protegge, ci conforta, ci fornisce alibi buoni per ogni nostra rabbia. Invece di cercare il nemico in alto, ci aiuta a trovarlo in basso. Anche negli scompartimenti dei treni regionali.

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