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Rassegna Stampa
11.11.2009 Lodi sperticate per Arafat, la peggiore disgrazia capitata ai palestinesi
Ma per Udg, era un sogno

Testata:
Autore: Umberto De Giovannangeli
Titolo: «Palestina senza Stato»

Riportiamo dall'UNITA' di oggi, 11/11/2009, a pag. 32, l'articolo di Umberto De Giovannangeli dal titolo " Palestina senza Stato ".

Un articolo di lodi spericate per il terrorista Yasser Arafat.
Udg, nella foga di descrivere la figura del fondatore dell'Olp, arriva a sostenere l'assurda tesi che il sogno di Arafat ("
UnaPalestina dai mille frammenti difficilmente ricomponibili: è ciò che resta del sogno di uno Stato palestinese. Un «sogno» targato Yasser Arafat. )fosse quello di fondare uno Stato per i palestinesi. Forse Udg era distratto tutte le volte che Arafat l'ha rifiutato?
Udg descrive Arafat per ciò che non è mai stato, e cioè un eroe della storia. Fu, semmai, un terrorista, con un unico scopo: la cancellazione di Israele.
Se i palestinesi non hanno uno Stato proprio, devono ringraziare il tanto lodato Arafat e le sue ambizioni omicide. 
"
Sullo sfondo delle chiusure d’Israele, del suo unilateralismo forzato, di una colonizzazione sfrenata in Cisgiordania, dello strangolamento di Gaza, delle punizioni collettive. dei silenzi complici della comunità internazionale. ". Udg, così impegnato a sbavare sulla memoria di Arafat, perde ogni decenza. Gaza è stata ceduta da Israele agli arabi perchè facesse parte dello Stato palestinese. Sharon andò contro il proprio partito e contro gli abitanti israeliani di Gaza. Per quanto riguarda le "punizioni collettive ", è Hamas che ha usato i civili come scudi umani. Sul silenzio della comunità internazionale, forse Udg era distratto anche quando Goldstone ha redatto il suo rapporto contro Israele.
Nonostante Arafat sia morto, la linea degli arabi non è cambiata. Continuano ad opporre secchi rifiuti a tutte le proposte avanzate da Israele. Ciò che conta è la demonizzazione dello Stato ebraico, dei suoi governi. L'ultima proposta, avanzata da Saeb Erekat (quella di fondare uno Stato unico, binazionale), rivela le  "buone intenzioni " degli arabi nei confronti di Israele.
Alla favola del sogno di Arafat può credere solo un ex PCI come Udg. Ecco l'articolo:

 Il terrorista Yasser Arafat

Orfani di Abu Ammar. E al contempo, ostaggi di Yasser. Orfani di un capo che ebbe il merito di imporre al mondo, incarnandola, la questione palestinese. Ostaggi di un rais accentratore, che ha lasciato in eredità una nomenklatura incapace, corrotta, spaccata al proprio interno in una logorante guerra di clan, fazioni, milizie. La Palestina a cinque anni dalla morte di Yasser Arafat. Cinque anni di speranze deluse, di dolore, frustrazione, morte. Cinque anni alla ricerca di unleader carismatico, di un dirigente capace di conquistare il cuore e la mente di un popolo generoso, oppresso, che non ha mai smesso di rivendicare il proprio diritto a vivere da donne e uomini liberi in uno Stato indipendente. Lo Stato di Palestina. Cinque anni di promesse mai mantenute, di divisioni laceranti. Cinque anni senza «Mr.Palestine». Un vuoto incolmato, incolmabile. Il vuoto lasciato da unleader controverso, e tuttavia riconosciuto, riconoscibile. Un leader che fece della sua ambiguità un punto di forza. Scrisse in «Il mistero Arafat» (Utet) Danny Rubinstein, tra le firme più prestigiose del giornalismo e della saggistica israeliane: «Arafat in fondo, proprio grazie alla sua ambiguità, è sempre stato l’unico rappresentante palestinese nese capace di parlare contemporaneamente alle anime del movimento più distanti tra loro». Questo«collante»è finito con la sua scomparsa. Ma quel collante ha rappresentato anche il pesante macigno che ha affondato le speranze dell’élite cresciuta nel vivo della prima Intifada. «L’abilità di Arafat – riflette ancora Rubinstein – è sempre stata quella di manipolare a proprio vantaggio le situazione più drammatiche». Un grande tattico privo di una visione strategica.Un leader guerrigliero che non ha saputo, potuto o voluto, forgiare la classe dirigente di uno Stato in formazione. Agli albori della seconda Intifada, chiedemmo al Haider Abdel Shafi, uno dei «grandi vecchi» fondatori dell’Olp, recentemente scomparso, quanto fosse solida la leadership di Arafat. Sono passati otto anni d’allora, ma la sua risposta a me pare di straordinaria attualità: «La sua forza – affermava Shafi – consiste innanzitutto nella mancanza di alternative credibili. Arafat ha applicato con intelligenza e spregiudicatezza la politica del dividi e comanda, giocando l’uno contro l’altro i possibili antagonisti e non dimenticandomai che, nonostante le indubbie evoluzioni, quella palestinese resta pur sempre una società fortemente condizionata da mai sopite logiche tribali. Il consenso si fonda su un insieme di fattori: il mito di “Abu Ammar”, il vecchio e indomito combattente di mille battaglie; la legittimazione internazionale; il sostegno di leader arabi di primo piano, come l’egiziano Mubarak; il totale controllo dei fondi che affluiscono nelle casse dell’Anp e la loro gestione politica, finalizzata all’estensione del consenso e alla neutralizzazione delle opposizioni. Infine, il mastodontico apparato di polizia, con la duplice funzione coercitiva e di consenso…”. Concetto ripreso da Amnon Kapeliouk nel suo libro Arafat l’irriducibile (Ponte Alle Grazie): «Arafat, presidente dell’Autorità palestinese, centralizza tutti i poteri e diviene, da questo punto di vista, colui che ha la possibilità di distribuire posti di lavoro, accordare licenze commerciali e concedere monopoli – benzina, tabacchi, grano, concessioni lavorativa e per la pubblicità, ecc. E, nonostante Arafat non venga sospettato di essersi arricchito personalmente, nessuno ignora che una tale concentrazione di potere abbia aperto la via a un sistema di sudditanza e fedeltà, ampiamente ricompensate…». Disse di lui, Marwan Barghouti, l’uomo simbolo della seconda Intifada: «Con Arafat noi avremo sempre una forma patriarcale di Stato. Dopo Arafat la situazione cambierà e allora si aprirà la lotta tra i modelli…». «Mr Intifada» ha peccato di ottimismo. Questa lotta si è aperta, ma con conseguenze devastanti. Il «modello Hamas» si è contrapposto a quello di al-Fatah. Sullo sfondo delle chiusure d’Israele, del suo unilateralismo forzato, di una colonizzazione sfrenata in Cisgiordania, dello strangolamento di Gaza, delle punizioni collettive. dei silenzi complici della comunità internazionale.Condisincanto, cinque anni dopo i palestinesi si sentono orfani di Abu Ammar. E fanno i conti con un quadro sconfortante: fazioni armate che rispondono solo ai comandanti locali. Comandanti locali che prendono ordini dai loro reclutatori provenienti dall’Iran o dal vicino Libano. Clan tribali che gestiscono in proprio sequestri e traffici d’armi, e che condizionano la vecchia nomenklatura arafattiana tutt’altro che disposta a farsi da parte per favorire l’avvento dei giovani colonnelli cresciuti nel fuoco della seconda Intifada. Un Hamas spaccato in quattro correnti; un Fatah che non trova di meglio che affidarsi ad un rais dimezzato, sfiduciato: Mahmud Abbas (Abu Mazen). UnaPalestina dai mille frammenti difficilmente ricomponibili: è ciò che resta del sogno di uno Stato palestinese. Un «sogno» targato Yasser Arafat.

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