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L'Espresso Rassegna Stampa
21.04.2006 Analisi sulla ripresa del terrorismo antisraeliano
con qualche forzatura di troppo

Testata: L'Espresso
Data: 21 aprile 2006
Pagina: 0
Autore: Gigi Riva - Paola Caridi
Titolo: «Il patto kamikaze - Eppure bisogna parlarsi»

Non é contro Hamas l'attentato a Tel Aviv della Jihad islamica. Più semplicemente chi non é al governo si incarica di colpire gli israeliani, chi c'é di trattare con la comunità internazionale.
Sostiene il contrario l'articolo di Gigi Riva pubblicato da L'ESPRESSO dtato 27 aprile 2006.
Dove si trova anche la curiosa tesi per la quale se Israele avesse accettato il piano arabo che prevedeva il suo "riconoscimento" in cambio del ritiro entro i confini del 67, della rinuncia a Gerusalemme e del "diritto al ritorno" dei "profughi" palestinesi oggi l'Iran non potrebbe metterne in discussione l'esistenza...
Perché  basterebbe aspettare in silenzio la sua scomparsa?
Ecco il testo:

Non è tanto l'attentato, non solo. Quello lo si era messo nel conto se Yuval Diskin, il direttore dello Shin Bet, il servizo di sicurezza interno israeliano, rivela che, da quando Hamas è al potere, 88 terroristi potenziali sono stati fermati, 11 dei quali poco prima di agire: a dispetto delle illusioni, nessun muro può essere così sigillato da risultare, nel tempo, impenetrabile. Più dell'attentato, allora, sono il momento, la firma, le reazioni e il quadro generale dell'area a smuovere angosce profonde, sino all'incubo che rimette in discussione l'esistenza stessa dello Stato d'Israele. Senza averne probabilmente alcuna consapevolezza, il kamikaze ragazzino che si è fatto esplodere lunedì 17 aprile fra i tavoli della paninoteca Rosh Hair, nell'area della vecchia stazione degli autobus di Tel Aviv, non solo ha ucciso nove persone e ne ha ferite 40, ma ha svelato il rafforzarsi di un asse che parte da Teheran, ha una base d'appoggio a Damasco e dei terminali nei Territori palestinesi. Lui, il ragazzino, dunque, come capolinea di una strategia assai più globale della semplice lotta armata di resistenza del suo popolo. Più che oltre il vicino confine, si volge lo sguardo verso l'Iran degli ayatollah e del presidente Mahmoud Ahmadinejad, l'uomo che ha ridato vigore a una strategia antica, mai sepolta, perché il passato, in Medio Oriente, non passa mai. Ci voleva il nuovo falco con la barba e la camicia slacciata, ci voleva l'atomica promessa ai suoi sciiti e minacciata al mondo per ricordare, a chi ha la memoria troppo corta, che dal 1991, dalla Conferenza di Madrid prologo dell'accordo di Oslo, Teheran ospita una controconferenza di tutti coloro che si appongono a ogni sforzo di pace avendo un unico scopo: la cancellazione dell'"entità sionista" dalla carta geografica. L'iniziativa fu bollata, troppo sbrigativamente, come folclore o raduno di irriducibili destinati all'isolamento. Altre erano le priorità e l'universo sunnita, di cui Saddam Hussein era paladino, sembrava meglio attrezzato a perseguire l'identico scopo. Si sa come sono andate le cose e i manuali insegnano che in politica non esistono vuoti: si colmano subito. Così la bandiera della causa palestinese, spesso peraltro agitata pro forma, è passata nelle mani degli "eretici" sciiti. I quali ne vorrebbero fare il vessillo per rilanciare il loro primato sulle nazioni arabe tutte.

Il kamikaze esplodeva e, pressoché contemporaneamente, Teheran, nel pieno della sua partita a scacchi con l'Onu circa il nucleare, annunciava la consegna pronto cassa di 50 milioni di dollari di aiuti all'Autorità palestinese. Soldi palesi che prendono la via del Mediterraneo, sulla scia di altri soldi, più o meno occulti, che negli anni sono andati ad alimentare le casse sia di Hamas oggi al potere, sia della Jihad islamica, l'organizzazione che ha rivendicato il sanguinoso botto di Tel Aviv. Gli uomini dei servizi segreti rileggono con accresciuto interesse i dossier che legano il regime degli ayattolah a Damasco, quindi al Libano di Hizbullah (il partito di Dio) quindi, per prossimità, i referenti nei Territori. A Damasco hanno base i leadeer in esilio sia di Hamas (Khaled Meshal) sia l'omologo della Jihad Ramadan Shallah. Sentite cosa diceva quest'ultimo da un'applaudita tribuna di Teheran non più tardi di due anni fa: "Se l'America è quella che divide il mondo tra il campo del bene e il campo del male e se mette il popolo palestinese e i suoi combattenti nel campo del male, dichiarando che i martiri sono il male, allora noi rispondiamo: Allah, rendici tutti malvagi, fa' che possiamo far arrabbiare l'America ed esplodere nel cuore di questa maledetta entità sionista". E durante lo stesso convegno supplicava di dividere la cassa, prima gestita in comune con hizbullah, per poter reclutare, preparare, sostenere i suicidi e risarcire le loro famiglie. Accordato.

La differenza, rispetto ad allora, è che Hamas e Jihad hanno diviso i loro destini. Gli uni al governo, gli altri fuori dal circuito istituzionale e alla disperata ricerca di un attentato per riverniciare una ragione sociale sbiadita a causa dei fallimenti a catena e degli omicidi mirati di cui sono state vittime diversi suoi militanti. Però entrambi sempre sotto lo stesso ombrello protettivo. Un ombrello che ha l'ambizione di coprire la regione con la sua influenza e grazie al potere attrattivo della bomba. Al premier d'Israele Ehud Olmert non è sfuggita la catena di pronunciamenti a favore di elargizioni in denaro all'Autorità di Hamas, partita da Teheran e che ha coinvolto anche la Siria (rieccola), ma soprattutto paesi legati, più o meno ambiguamente, all'Occidente come Arabia Saudita e Qatar. Fino a far riemergere la sindrome dell'isolamento che risale a prima della guerra del 1967. Alcuni elementi sono cambiati, rispetto a 40 anni fa, altri sono rimasti inalterati. Israele, anzitutto ha gambe più solide e una storia sessantennale, ha la bomba, ha firmato un accordo di pace almeno con Egitto e Giordania. Come allora, tuttavia, sente allargarsi il fronte del rifiuto e dunque sente i propri confini minacciati. Al ministero degli Esteri, col sen di poi, alcuni analisti, rispolverano il piano dell'allora principe saudita Abdallah, presentato a Beirut nel 2002 e fatto proprio dalla Lega Araba, che prevedeva il ritiro in cambio del riconoscimento di tutti gli Stati membri della Lega. Nella perenne diatriba su cosa dovesse succedere prima, il piano naufragò con l'applauso convinto di Ariel Sharon, il maggior detrattore.

Fu una decisione saggia? Oggi sarebbe certificata una legittimità, se non irreversibile, almeno solida. Invece Teheran può tirare le fila degli oltranzisti, racimolare consenso sulla questione palestinese da spendere, sul mercato arabo, in vista della sfida annunciata sul nucleare. Non c'è nessuno in grado di dire con certezza quanto Ahmadinejad sia vicino alla bomba. E tuttavia, da mesi, i piani sono pronti per un attacco che sarebbe, naturalmente, solo aereo. L'Iraq sconsiglia altre avventure sul terreno. I siti nucleari sono almeno cinque e la costruzione di bunker otto metri sotto il suolo, costringerebbero ad usare in un'azione prolungata (tre-quattro giorni), il meglio della tecnologia bellica. Secondo Ely Karmon, tra i più accreditati studiosi del terrorismo nel mondo, bisogna aspettarsi che succeda entro l'anno, salvo resipiscenze di Teheran al momento impronosticabili. Chi agirà? Pochi dubbi: "Gli americani, i quali toglierebbero le castagne dal fuoco a Paesi come la Turchia e l'Egitto, fortemente preoccupati dal fatto che l'Iran possa entrare nel club delle potenze nucleari". Israele approverebbe, ovvio. Forse parteciperebbe. Gli analisti provano a prevedere anche le reazioni. Ci sarebbero almeno 53 mila terroristi suicidi sciiti pronti a farsi esplodere contro le truppe americane che stanno in Iraq. Finora hanno avuto un ruolo marginale nella sarabanda delle autobombe, ne diventerebbero protagonisti. Non solo, potrebbero essere colpiti dai missili che ormai gli ayatollah possiedono in Paesi del Golfo legati agli Usa, oltre a Israele. Il che attiverebbe un'arma indiretta: il prezzo del petrolio finirebbe letteralmente alle stelle.

In un tale scenario la questione palestinese, che Arafat aveva tenacemente tentato di costringere dentro la camicia nazionale, sarebbe travolta e scavalcata da una questione araba più generale. E perderebbe la sua efficacia, anche simbolica. Un rischio che Hamas ben conosce e, da questo punto di vista, l'attentato di Tel Aviv è anche contro il suo governo e l'interesse che ha nel non essere ancora più isolato internazionalmente di quanto non sia. Danny Rubinstein, tra i maggiori columnist israeliani, sostiene, appunto, che il kamikaze è "scomodo soprattutto per Hamas". E tuttavia, come riflette Ali Jerbawi, politologo e professore all'università di Bir Zeit, "il movimento è premuto, schiacciato dalle sue stesse parole. Non può condannare i suicidi dopo aver pubblicamente sostenuto che non avrebbe mai agito contro chi commette le stragi".

Giorno dopo giorno, i vincitori delle elezioni di gennaio scoprono quanto più facile fosse stare all'opposizione. Scoprono quanto cara possa costare la scelta di non riconoscere Israele che ha ridotto i Territori ad una situazione di sostanziale autarchia. Visto da Ramallah, allora, il problema non è tanto il Medio Oriente nel suo complesso, ma come pagare i salari dei dipendenti pubblici. Si sfoga il dottor Mahmoud Ramahi, vicepresidente del Parlamento: "Dal 28 febbraio i nostri lavoratori non percepiscono gli stipendi, significa gettarci nella disperazione con delle conseguenze nefaste e imprevedibili". Da questa prospettiva anche gli aiuti annunciati sono una chimera o poco più: "I soldi del Qatar sono bloccati nelle banche egiziane che non ce li trasferiscono perché temono ritorsioni da parte degli americani, quelli iraniani sono rimasti sinora sulla carta". Giura che Hamas, dopo aver fermato "almeno il 90 per cento" dei possibili kamikaze, potrebbe arrivare al"100 per cento", se gli venisse data la chance di governare con gli aiuti del passato e di sanare le situazioni più disagiate. L'alternativa sarebbe un caos ancora peggiore: "A Gaza, dall'Egitto, sono entrate armi nuove e più sofisticate in grado di colpire il territorio israeliano. Temiamo possa scoppiare una Terza Intifada, più cruenta delle altre, se non si arginerà l'emergenza economica". La sua ricetta su come rimanere forza di lotta e di governo è più o meno questa: fine delle azioni in territorio israeliano, resistenza concentrata contro i soldati che stanno nei Territori occupati. In cambio, dialogo con Stati Uniti ed Unione europea. Quanto al nodo cruciale del riconsocimento di Israele, nessun passo avanti: "Cosa dovremmo riconoscere? Un Paese di cui non conosciamo i confini? E poi, perché noi dovremmo riconoscere loro senza essere riconosciuti quando la contropartita sarebbero solo gli aiuti economici e la cancellazione di Hamas dalla lista del terrorismo?".

In una situazione di arrocco totale, una parola di speranza la spende Hanna Siniora, intellettuale e uomo d'affari di Gerusalemme:"Se si vuole vederla, una luce in fondo al tunnel c'è. Ed è rappresentata dalla possibilità indicata da Mahmoud al-Zahar, il ministro degli Esteri dell'Anp, di accettare il piano di pace Abdallah. Sarebbe una via indiretta per riconoscere Israele".

Lo facesse davvero, sconfesserebbe i protettori iraniani che puntano invece alla contrapposizione frontale. Anche Hamas sta tra l'incudine dell'idealismo estremista e il martello del realismo. Sembra subire gli eventi senza avere la possibilità di controllarli minimamente. La Jihad annuncia di avere 70 kamikaze pronti a immolarsi e non può reagire. Ehud Olmert, ancora in attesa di formare il suo governo, preferisce rimanere in posizione di attesa e non scatena una rappresaglia immediata per rafforzare l'isolamento del governo avversario e valutare come evolverà lo scenaio. I suoi militari intanto preparano comunque i piani. Uno prevede la rioccupazione di Gaza. Le prove generali sono già state fatte la settimana scorsa quando le truppe di Tsahal, per saggiare le reazioni, hanno compiuto un'azione dimostrativa penetrando per soli cento metri. Quanto al ministro della Difesa Shaul Mofaz, la sua idea è di separare nettamente in due la Cisgiordania e andare a snidare, nel Nord, attivisti e leader della Jihad con operazioni mirate.

Azioni su più vasta scala sono rimandate a quanto si insedierà l'esecutivo in cui potrebbero entrare, oltre ai laburisti di Amir Peretz, la destra di Avigdor Lieberman e del suo partito dei russi. Sarebbe la copertura che Olmert cerca per non essere considerato troppo di sinistra. Con una maggioranza solida andrebbe poi incontro al complicato futuro prossimo. Non bastava il piano di ritiro annunciato dalla Cisgiordania, i terroristi da affrontare sull'uscio e dentro casa, la sostanziale delegittimazione del presidente palestinese Abu Mazen. Ora, con l'Iran di mezzo, deve ritrovare la forza di riaffermare: io esisto e ne ho diritto.

Interessante l'intervista di Paola Caridi Yossi Alpher, "ex direttore del Centro di studi strategici di Jaffa, dirigente del Mossad", che propone l'apertura di contatti con Hamas da parte di privati cittadini israeliani.
Ma Alpher ha ben chiaro che oggi come oggi le possibilità di un accordo con Hamas son pressoché nulla. Non propone, infatti, contatti ufficiali.
Del tutto fuorviante rispetto al contenuto dell'intervista, allora, è un titolo come  "Eppure bisogna parlarsi ", che suggerisce una strategia politica e implicitamente fa riferimento alle scelte del governo israeliani.

Ecco il testo:

L'attentato kamikaze del 17 aprile a Tel Aviv non ha fatto cambiare opinione a Yossi Alpher: bisogna aprire contatti informali tra privati cittadini israeliani ed esponenti di Hamas. Un'idea semplice e non controversa, dice. Alpher è un esperto della materia. Ex direttore del Centro di studi strategici di Jaffa, dirigente del Mossad, è stato uno dei protagonisti della diplomazia parallela tra israeliani e palestinesi negli ultimi 15 anni, nonché consigliere di Ehud Barak nel 2000. Un dialogo, quello con i vicini di casa, che continua ancora oggi, in un'arena virtuale come 'bitterlemons.org', rivista molto frequentata su Internet che dirige assieme all'ex ministro del lavoro palestinese Ghassan Khatib. "Non avevo illusioni su Hamas neanche prima dell'attentato di Tel Aviv", commenta Alpher: "E non sono rimasto sorpreso quando il portavoce di Hamas si è compiaciuto dell'attacco. E sono completamente d'accordo con la linea del governo israeliano: nessun contatto con Hamas finché Hamas non accetta le condizioni internazionali stabilite dalla Road Map".

Intanto, che fare?

"Sarebbe utile che cittadini israeliani prendessero contatti con Hamas. Non parlo di contatti ufficiali, né di aiuti economici, ma di colloqui informali. Bisogna cominciare a parlarsi. Non so, però, se Hamas accetterebbe una proposta del genere, visto che finora ha rifiutato l'idea di avere rapporti politici con gli israeliani. Israeliani e palestinesi si sono incontrati da nemici per molti anni. Per parlare. Come ho fatto anch'io, nonostante che l'Olp e Fatah compivano attacchi terroristici

contro Israele. Eppure parlavamo. Nel tempo, la loro visione è cambiata e anche la nostra. Personalmente ho incontrato sostenitori di Hamas, e continuerò a farlo, anche solo per conoscere meglio

il mio nemico".

Che differenza c'è fra il terrorismo di ieri di Fatah e quello di oggi di Hamas?

"Mentre Fatah si presentava come un movimento laico, gli uomini di Hamas sono fondamentalisti musulmani. Fatah poteva essere più flessibile dal punto di vista ideologico. Ho l'impressione che i Fratelli musulmani, da cui Hamas deriva, non accetteranno mai compromessi come il riconoscimento di Israele".

Che ne pensa della politica del premier israeliano Ehud Olmert, di un ritiro parziale e unilaterale dalla Cisgiordania?

"I palestinesi sbagliano a rifiutare le cosiddette 'convergenze' di Olmert. Non accettano l'idea che quelle terre siano considerate dagli israeliani come colonie. Dovrebbero invece accogliere positivamente il ritiro, perché otterrebbero qualcosa indietro.

I palestinesi vicini a Fatah sono pronti a discutere, ma hanno perso le elezioni. Così il risultato è che noi israeliani non abbiamo un partner palestinese con cui discutere. Di sicuro Olmert alla fine non otterrà il riconoscimento internazionale su confini tracciati in maniera unilaterale".

I palestinesi sostengono che non sia possibile costituire uno Stato palestinese reale solo con un ritiro parziale dalla Cisgiordania, con il controllo militare israeliano nella Valle del Giordano e con un territorio diviso in cantoni. Lei cosa ne pensa?

"Che hanno ragione. Ma in questo momento non stiamo discutendo di Stati possibili, ma di come gestire un conflitto".

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