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L'Espresso Rassegna Stampa
24.08.2005 Tahar Ben Jelloun sul ritiro da Gaza propone la solita propaganda anti-israeliana
e chiama i terroristi palestinesi "resistenti"

Testata: L'Espresso
Data: 24 agosto 2005
Pagina: 13
Autore: Tahar Ben Jelloun
Titolo: «Il ritiro da Gaza una via obbligata»
L'ESPRESSO del 25 agosto 2005 pubblica a pagina 13 un articolo di Tahar ben Jelloun sul disimpegno da Gaza, che viene presentato come "una forma di riparazione".
Dimenticando l'antica presenza ebraica a Gaza, Giudea e Samaria, il fatto che gli insediamenti sorgevano su terre prima inutilizzate, dove i coloni hanno installato fiorenti attività agricole e industriali, il ruolo degli insediamenti nella difesa di un paese aggredito ininterrottamente fin dalla sua fondazione, Ben Jelloun nega ad essi ogni legittimità.
Definisce, conseguentemente il terrorismo palestinese "resistenza". Anche se la falsa ricostruzione storica di Ben Jelloun fosse vera, la sua conclusione sarebbe sbagliata. Chi "resiste" a un illegittima occupazione militare facendo starge di civili è un terrorista. A definirlo così bastano i mezzi che utilizza, al di là di qualsiasi discussione sui suoi fini. E' un dato di fatto, comunque, che il terrorismo palestinese esiste da molto prima dell'"occupazione" di Cisgiordania e Gaza (le prime indiscriminate violenze antiebraiche da parte araba nella Palestina del mandato britannico risalgono aglia nni 20) e che il suo fine dichiarato è sempre stato la distruzione di Israele, non la nascita di uno Stato palestinese. Obiettivo più volte a portata di mano e sempre mancato per l'irrigidimento oltranzista delle diverse leadership palestinesi, da Amin Al Hussein ad Arafat

Ecco l'articolo:

Una residente di Gush Katif, una delle colonie evacuate, oppone resistenza e protesta: "Siamo qui con tutti i nostri figli. Abbiamo fiducia. Dopo tutto, perché ci scacciano? Perché gli ebrei devono sempre soffrire?". Un altro abitante di questo insediamento urla: "Mi sento tradito!". La stampa riferisce di molte altre reazioni, tutte dello stesso tenore.

L'attaccamento alla terra è una delle passioni umane di più lunga data a questo mondo: l'uomo si è sempre battuto per mantenere la propria terra, ambiente di vita sì, ma anche simbolo delle proprie radici, della propria identità.

È legittimo rifiutarsi di restituire una terra che non ci appartiene? È giusto rifiutarsi di prendere atto di quello che accade dall'altra parte del muro, di tener conto della vita dei palestinesi che da decenni attendono nei campi per rifugiati?

La sofferenza dei coloni che l'esercito ha il compito di evacuare assomiglia a quella dei palestinesi, privati dei loro territori dal 1967, altri addirittura dal 1948. Restituire quelle terre è un primo passo verso la pace. Questa pace ha un prezzo e i coloni che oppongono resistenza questo non lo vogliono capire. Se la prendono con il loro governo e con il primo ministro, il quale è tutto fuorché compassionevole con i palestinesi o compiacente nei suoi rapporti con la nuova Autorità palestinese. Sharon ha sempre combattuto la resistenza palestinese, dimostrando di essere capace di colpire la popolazione sospettata di aiutare quelli che egli chiama terroristi.

È stato così che il suo esercito nell'aprile 2002 invase la piccola città di Jenin e per una decina di giorni essa rimase isolata dal mondo intero, senza che alcun testimone o alcun giornalista riferissero che cosa vi stavano facendo i soldati. Non sapremo mai quanti morti e quanti feriti l'esercito israeliano si sia lasciato alla spalle. Ebbene, se Sharon oggi ha deciso di evacuare Gaza e di restituire quei territori ai palestinesi, non è per amore di questi ultimi, bensì per realismo e perché ha fatto i suoi calcoli politici. È un uomo che conosce il problema: ha combattuto svariate guerre, è irremovibile e si dice che neppure Washington abbia vera influenza su di lui. Sharon è colui che aveva rifiutato gli accordi di Oslo del 1991, definendoli "una tragedia per Israele": li ha osteggiati e ha impedito che entrassero in vigore, svuotandoli di contenuto e cancellando tutto ciò che era stato negoziato a lungo e con pazienza.

È stata la morte di Arafat a sbloccare la situazione sul terreno ed è con Mahmud Abbas, il nuovo capo dell'Autorità palestinese, che Sharon ha negoziato il ritiro da Gaza. I palestinesi auspicano che questo ritiro sia seguito da altri, ma si sbagliano. Perché mentre l'esercito fa il suo dovere - con l'ordine di cominciare ogni intervento con le parole 'Shalom! Siamo venuti a evacuarvi' - si continua a costruire il muro divisorio, in particolare a Gerusalemme. Quel muro che divide la città è la risposta al sogno di rendere la città santa capitale della 'Palestina liberata'.

Due giornalisti israeliani, Akiva Eldar e Idith Zertal (quest'ultima è una storica), hanno pubblicato un importante libro sulla storia della colonizzazione. Gli autori ritengono che nulla di legittimo possa essere edificato su un territorio che è stato annesso e quindi occupato, e dimostrano che questa politica ha compromesso qualsiasi speranza di pace. Così scrivono nella loro prefazione: "La maggior parte delle colonie, persino quelle di più lunga data, paiono fragili (.). Il giorno in cui la società israeliana troverà in se stessa la forza di decidere di abbandonare i territori che ha occupato (.), allora le colonie cadranno una dopo l'altra" (citazione da 'Le Monde Diplomatique', agosto 2005).

Perché questo si verifichi, occorre adoperarsi con impegno per spiegare le cose, cominciando col riconoscere che i palestinesi hanno il diritto di rientrare in possesso dei territori carpiti loro con la forza. Questo lavoro di verità storica non è stato fatto. I palestinesi sono considerati alla stregua di terroristi e non di resistenti a un'occupazione. È vero: la disperazione palestinese ha agevolato la comparsa degli estremisti, ma questi costituiscono soltanto una delle componenti della società palestinese, tanto quanto anche Israele ha i suoi estremisti.

Il ritiro da Gaza è una tappa storica. Col tempo, coloro che si rifiutano di lasciare le colonie finiranno col comprendere che questo ritiro è una forma di riparazione: non si può continuare a occupare i territori pensando che coloro che vivono nei campi profughi in condizioni umilianti un giorno rinunceranno per sempre a tornare in possesso di quella che era la terra delle loro origini, dei loro antenati, delle loro famiglie. È rendendo giustizia ai palestinesi che Israele vivrà in pace.
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