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L'Espresso Rassegna Stampa
03.04.2004 Ben Jelloun si riconferma un maestro
della propaganda e della manipolazione della verità

Testata: L'Espresso
Data: 03 aprile 2004
Pagina: 44
Autore: Tahar Ben Jelloun
Titolo: «Quei bambini allevati alla morte»
Su L’Espresso del 02-04-2004,in edicola questa settimana, troviamo un articolo che segnaliamo ai nostri lettori perché costituisce un esempio di come i fatti possono essere piegati a favore della tesi che l’autore intende dimostrare. L’articolo prende spunto dall’episodio del bambino fermato al posto di blocco con una cintura esplosiva e intende riportare ai lettori le condizioni di vita dei bambini nei territori palestinesi. L’intento sarebbe non solo apprezzabile ma anche lodevole visto che sono in molti che ancora oggi si rifiutano di denunciare lo sfruttamento dei bambini da parte dei loro stessi familiari e l’indottrinamento che viene loro imposto fin dalla tenera età. Per non parlare dei giovani che vengono costretti ad immolarsi o dei padri di famiglia che vengono considerati collaborazionisti se non acconsentono a lasciare un figlio per la "causa". Ma purtroppo Tahar Ben Jelloun, una nostra triste conoscenza, non riesce a trattenersi e trova ugualmente il modo di dare ad Israele anche questa colpa.

Ma procediamo con ordine e seguiamo il ragionamento dell’autore.

"Tutti abbiamo visto, il 24 marzo scorso, l'immagine del bambino palestinese con agganciati al corpo otto chili di esplosivo, pronto a farsi esplodere a un posto di blocco. C'è da rimanere sconvolti per la giovane età di questo candidato alla morte, e per la sua irriducibile determinazione.
Ma al di là dell'emozione, cerchiamo di comprendere com'è stato possibile. Come mai un adolescente obbedisce all'istinto di morte piuttosto che all'istinto di vita? Perché vuol morire uccidendo al tempo stesso altre persone? Per chi vive in un campo profughi, senza sicurezza, senza poter fare riferimento a un paese riconosciuto, le nozioni di vita e di morte non hanno la stessa importanza, lo stesso significato che per gli abitanti di uno Stato pacifico. Per l'adolescente europeo o americano, che frequenta la scuola, ascolta le musiche in voga, va a ballare in discoteca in compagnie delle sue amiche, l'istinto di vita è evidente e primordiale. Quel giovane non vive nell'insicurezza, nel pericolo quotidiano, ma studia, fa progetti, si sposta come vuole, viaggia e si gode la vita con tutte le sue energie. L'altro, nato in un campo profughi, della vita non ha conosciuto altro che le disgrazie, l'occupazione, le bombe e le umiliazioni. E la sua percezione del mondo non è la stessa di quella del suo coetaneo occidentale.
Si dovrebbe evitare di giudicare troppo affrettatamente gesti atroci come quello che si apprestava a commettere il giovane palestinese. È necessario uno sforzo, non per giustificare ma per comprendere.

Le affermazioni sono tristemente vere. Purtroppo i ragazzi palestinesi vivono in un ambiente poco adatto in cui non esiste la spensieratezza e la possibilità di crescere serenamente. Ma Tahar ben Jelloun attribuisce queste condizioni ai fattori "occupazione", "bombe", "umiliazioni". Forse sarebbe più corretto precisare che gran parte delle sventure dei bambini e dei ragazzi palestinesi sono espressamente volute dai palestinesi stessi. Basta pensarci per un istante: se i bambini vengono usati come scudi umani (invece di andare a giocare) di chi è la colpa? Se i bambini vengono usati come trafficanti di armi nei tunnel (invece di stare con altri bambini) di chi è la colpa? Se i bambini vengono indottrinati ed imparano i principi della jihad fin da subito (invece che andare a scuola) di chi è la colpa? Se i bambini ai campi estivi imparano come si sgozza il nemico e come si spara con il mitra (invece che il campeggio) di chi è la colpa? E’ vero, la percezione del mondo da parte dei bambini palestinesi è differente rispetto a quella dei coetanei occidentali, ma le colpe non sono né delle bombe, né dell’occupazione.

Ma proseguiamo la lettura dell’articolo.

"Per tornare sul luogo dei fatti, cioè a Gaza, a Ramallah, a Jenin, dall'ottobre 2000, secondo i dati delle Nazioni Unite, 1.075 case o edifici palestinesi sono stati distrutti nel corso di operazioni militari israeliane, con un totale di 289 morti, di cui 79 bambini. Nella sola giornata del 25 gennaio scorso, nel quartiere di Salah el Din a Rafah, all'estremo sud della striscia di Gaza sono state distrutte 25 case. Qui sono varie migliaia le famiglie rimaste senza tetto per l'opera dei bulldozer israeliani. Il pretesto è quasi sempre lo stesso: la ricerca dei terroristi. Agli abitanti si danno cinque minuti di tempo per uscire di casa prima che i bulldozer entrino in azione. Nessuna trattativa, nessuna discussione. Se ci limitiamo a considerare la situazione delle donne e madri di famiglia, apprendiamo che tra gli altri esiti, la costruzione del muro e il blocco dei territori palestinesi hanno avuto per effetto l'isolamento di molte donne, con l'impossibilità di accedere agli ospedali. Di conseguenza, oggi il 14 per cento delle gestanti partoriscono a domicilio. Sempre secondo i dati delle Nazioni Unite, dal 2002 vi sono stati 52 casi di donne costrette a partorire ai posti di blocco militari israeliani, con conseguenze mortali per 19 donne e 29 neonati. Dall'elezione di Sharon, nel febbraio 2001, sono sorte in Cisgiordania 44 nuove colonie. I morti dall'inizio della seconda Intifada (settembre 2000) sono più di 3 mila, di cui oltre il 70 per cento palestinesi."
Ancora una volta ci viene riproposta la guerra delle cifre. Cifre di case distrutte, senza chiarire se erano covi di terroristi, armerie clandestine o punti di partenza di tunnel per il contrabbando di armi. L’unico fatto che viene evidenziato è la distruzione della casa e la tragedia degli occupanti.
Ma ancora, cifre di morti nel corso dell’intifada, senza chiarire quanti sono morti perché facevano da scudi umani a terroristi, quanti sono morti per mano degli stessi palestinesi, quanti di questi erano in realtà terroristi che si sono fatti saltare in aria. Anche qui, l’unico fatto è il numero, la composizione agli occhi di Tahar ben Jelloun non conta. Ben Jelloun si conferma un maestro della manipolazione.

"Questa è ormai l'amara quotidianità della popolazione palestinese. Quando svaniscono le speranze di pace, quando tutti i piani di pace vengono respinti (compreso quello del principe saudita Abdallah e il piano di Ginevra), dal primo ministro Ariel Sharon, uomo che non conosce altra politica al di fuori della repressione, delle rappresaglie preventive o degli assassini mirati di dirigenti palestinesi, gli adolescenti sanno che il loro avvenire è nella resistenza e nella lotta. E se questa causa viene strumentalizzata dagli islamisti e dai radicali, la cosa non dispiace a Sharon, nella misura in cui vorrebbe far passare per integralisti tutti i palestinesi. Con l'assassinio dello sceicco Yassin, il capo spirituale di Hamas, il premier israeliano sa di aver colpito un simbolo, e non ignora che ciò provocherà nuovi drammi e nuove rappresaglie."
Qui arriviamo addirittura ad un assurdo. L’estremizzazione dei movimenti e degli scontri sarebbe addirittura un elemento voluto e ricercato dal governo di Israele. E tutto questo perché Sharon sarebbe un sanguinario ed un amante della repressione. Per Tahar ben Jelloun quindi Israele non è uno Stato sovrano, che ha il diritto di esistere e di ricercare la pace ma che soprattutto ha il diritto di difendersi dagli attacchi di coloro che intendono combatterlo non per scopi di trattativa ma per scopi di distruzione. Non bisogna infatti dimenticare che Hamas – così come concepita dallo sceicco Yassin – ha come scopo della sua costituzione la distruzione di Israele, la conquista dell’intero territorio e la completa eliminazione della presenza ebraica.
"Tornando al kamikaze, questo ragazzo non ha agito da solo: è stato incoraggiato, indottrinato e soprattutto manovrato per trasformare la sua disperazione in un trionfo sulla morte. Così si fa di lui un giovane martire che si sacrifica per una causa: la riconquista e la liberazione delle terre occupate dal 1967. La religione interverrà fino a divenire una morale, una politica e un'ideologia. A questo ragazzo diranno che andrà in paradiso, come tutti i caduti in combattimento i cui ritratti coprono i muri dei campi profughi. Per chi ha trascorso l'infanzia nella pace, la vita ha un prezzo diverso da quello che può avere per un ragazzo cui si è negato tutto, anche il diritto all'infanzia.

L'adolescente che abbiamo visto nudo davanti alle armi dei soldati israeliani non è un adolescente. È una vittima già invecchiata, che agisce come un adulto tenuto a compiere il suo dovere di resistenza agli occupanti. Questo, evidentemente, non giustificherà mai il fatto che un ragazzo di 14 anni possa diventare un kamikaze; ma dovrebbe farci riflettere sulla spirale di violenza e di odio sempre più folle che ha preso in ostaggio tutto il Medio Oriente."

Qui l’autore dell’articolo introduce un ragionamento pericoloso. Il bambino costretto ad indossare il corpetto esplosivo agirebbe come un adulto che compie il suo dovere di "resistenza". E’ pericoloso assimilare l’azione del ragazzo ad un dovere di resistenza (termine improprio che di fatto intende un attacco). Qui il punto è capire se il ragazzo fosse o meno consapevole e convinto delle proprie azioni. Ciò che è importante ribadire è che un ragazzo che cresce nell’indottrinamento religioso, nei ricatti, nella paura di finire come finiscono i collaborazionisti, non può essere assimilato ad un adulto che matura delle idee e dei principi e decide consapevolmente di combattere per la loro difesa.

Fa bene Tahar ben Jelloun a denunciare la triste condizione dei bambini e dei ragazzi palestinesi ma dovrebbe – con un po’ di onestà d’animo – riconoscere quali sono le vere cause di tale malessere. La continua strumentalizzazione dei bambini e dei ragazzi (come in questo articolo) non li aiuta sicuramente a vivere meglio, non costituisce una loro valida difesa e dubitiamo che contribuisca al raggiungimento della pace. Ma non è questo il compito che lui si è dato. Non è la verità che lo interessa, ma solo la propaganda contro Israele.

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