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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Otto Dov Kulka, Paesaggi della metropoli della morte 04/02/2013

Paesaggi della metropoli della morte          Otto Dov Kulka                         
Guanda                                                                  Euro 14 

Chi è Orfeo, e chi Euridice? Lei si allontana, lentamente, passo dopo passo. Lui la guarda, immobile, sempre più sorpreso, ferito, confuso. Perché non si gira a salutarlo, almeno una volta ancora? Non le costerebbe nulla. Un'ultima occhiata, uno sguardo da portarsi dentro come il tesoro più prezioso per tutto il tempo - poco, pochissimo - che gli resta. «Non voltò la testa, camminava e camminò finché non divenne una macchiolina dall'altra parte del campo, e io sapevo che quella macchiolina era la sua gonna leggera - e poi sparì. Non so quanto rimasi lì impalato». La donna che si dilegua senza volgersi è la madre. Colui che aspetta invano un gesto di commiato è suo figlio. Sullo sfondo, le baracche di Auschwitz-Birkenau. Lei lascia il campo per andare verso il lavoro all'esterno e, forse, la salvezza. I ruoli si sono invertiti? Le tocca la parte di Orfeo, che per trascinare la compagna dall'Ade deve nascondere lo sguardo, farsi impassibile, non girare mai la testa? Il destino del giovane Otto, che la osserva impietrito e resta nel lager, sembra ormai irrimediabile. Lo aspetta la Grande Morte, è solo questione di tempo e i forni inghiottiranno anche lui. La sorte si contorce con spire di serpe, muta direzione, beffarda. E la madre a scomparire, per il tifo, in un rifugio sulle rive del Baltico. Il ragazzo si salva. Ha modo di vivere una vita piena. Dopo Auschwitz, emigra in Israele, diviene un importante storico, scava - con metodo scientifico - nel passato della Germania e dell'Europa. E ricorda. Con pudore, senza mettersi in mostra. Gli anni depurano le scorie del passato, come sabbia fine, attraverso cui l'acqua filtri goccia a goccia. Non che, col tempo, gli enigmi dell'adolescenza si chiariscano. Non che il commiato così impersonale della madre, amatissima, trovi una spiegazione sicura. Ma ricordare, ricordare bisogna, tutta l'esistenza di un sopravvissuto non è in fondo che un'unica, lunghissima memoria involontaria. Paesaggi della metropoli della morte di Otto Dov Kulka è un frutto tardivo. Dopo decenni trascorsi a distinguere meticolosamente tra esperienza biografica e rigore storiografico, in età matura Kulka si è avventurato in dieci registrazioni, dieci monologhi a voce alta che ora confluiscono in un volume, ponderato e pudico. Lo si potrebbe definire un'opera di Land Art. Anziché intervenire direttamente nei territori naturali, su spazi vasti e incontaminati, per incidervi provvisori e reversibili segnali di cultura, Kulka si cala nella geografia segreta di Auschwitz. È un lavoro astratto, scritto in una prosa di lava e schegge porose, e costellato di immagini. Fotografie scattate dall'autore, nei suoi periodici "ritorni". Scorci in cui non compaiono quasi mai figure umane, e abbondano invece dettagli materici, paesaggi di taglio, oggetti colti da prospettive inusuali. A prima vista si potrebbe pensare ad affioramenti casuali, a un capriccio compositi-vo senza logica. Da una parte il fluire impetuoso di relitti di vissuto, trasportati dalla corrente interiore, e dall'altra spezzoni di Polonia, abbinati secondo l'arbitrio delle associazioni mentali In fondo, un ragazzino di dodici anni, deportato assieme alla famiglia, ha ben diritto di costruirsi il proprio mondo trasognato anche sul baratro della fine. E un uomo che si volge indietro, maturo d'esperienza, può permettersi il lusso di scegliere ciò che gli fa meno male, ammesso che "meno" sia parola appropriata ad Auschwitz. A districare i ricordi del bambino-uomo ci pensa il caso, maniaco ordinatore che nulla trascura e nulla perdona, senza confidare ad alcuno le proprie ragioni. È il fato ad avvolgere il piccolo Otto in un feltro nero. Lo getta sul carro bestiame, e poi nel fango del campo. Per giocare, gli dà il filo spinato della recinzione. E allora lui, assieme agli altri ragazzini, fa a chi è più svelto. Tocca la rete senza restare fulminato, se hai il coraggio. Fissa il cielo, e vedilo azzurro, se ci riesci. E poi immagina un aeroplanino d'argento, ma che voli zitto zitto, così le guardie non se ne accorgono. Che occhi che hanno, le guardie. E che bastoni. Picchiano in silenzio, come si battono i panni, e in silenzio i deportati ricevono i colpi. Quasi senza un gemito, perché la disciplina è tutto, e tutto, ad Auschwitz, è disciplina. Poi i compagni di giochi entrano in fila, scuri come formiche, ed escono trasformati in fuoco e luce. Da lì non c'è altra uscita, e anche se è così giovane, Otto non si fa illusioni. Aspetta il suo turno, e i camini aspettano lui. Ma il turno non viene mai. Una volta s'intrufola nel gruppo sbagliato e lo saltano nella conta, un'altra s'ammala da morire, e così, nascosto in infermeria, non muore con gli altri quando il campo viene smantellato. Ha ancora fiato in corpo per sopportare la marcia di evacuazione, nella neve del gennaio '45. I russi, alla fine, lo liberano, può andarsene, cominciare una nuova esistenza. Quale libertà, e andarsene da dove? Kulka, l'adulto che rivive passo passo il suo viaggio alle soglie dell'Ade, sa che da laggiù non può esserci un vero ritorno. «lo sono rimasto in quella Metropoli, prigioniero in quella Metropoli, di quella legge immutabile che non lascia spazio alcuno alla salvezza». Così che, a far la spola tra allora e adesso, è facile che si perda l'orientamento. Senza sole e senza stelle, dov'è lo Zenit lucente e dove il Nadir della disperazione? Qualche tempo dopo la Guerra dei sei giorni, Kulka s'incammina sulla spianata del Tempio, a Gerusalemme. È la prima volta che la percorre. S'inoltra verso «la zona abbandonata, interamente coperta di erba e di rovi». Vuole avvicinarsi alla Porta della misericordia, la Porta dorata, che è murata. Da lì, secondo la tradizione ebraica, il messia farà il suo ingresso a Sion. «D'un tratto fui colpito da una sensazione di certezza assoluta, indiscutibile: in questo posto ci sono già stato!». Eppure, sa che è impossibile, si sta sbagliando, ma perché? Dopo essersi guardato a lungo attorno, finalmente lo vede. Tra gli sterpi, un filo spinato arrugginito, in tutto simile a quelli rimasti nel lager dopo l'abbandono. È solo un relitto, un object trouvé senza padrone e senza senso. Eppure è bastato scorgerlo per un attimo perché il Tempio e Auschwitz diventassero, nella sua immaginazione, un luogo solo, lo stesso posto, a cui era giunto bambino e dal quale non sarebbe mai più potuto partire. Allora era vero, c'era già stato, il Santuario l'aveva già visitato. Solo che, quando vi aveva fatto ingresso, si chiamava in un altro modo. Il filo contorto, gettato in un canto, era la prova più evidente che qualsiasi strada lo avrebbe riportato allo stesso dove. Otto Dov Kulka è un vecchio signore dai modi gentili, che, mentre racconta, passa con naturalezza dall'inglese all'ebraico e al tedesco. In tedesco, la sua voce un po' stanca assume un tono ancor più cortese, e le frasi suonano eleganti e nitide. Non ha rancori - mi dice - la Germania è mutata, nulla è rimasto come allora, e anche l'Europa si è trasformata. Lo ascolto - rassicurante, distaccato e al tempo stesso cordiale - e mi viene da pensare che non è del tutto corretto, che qualcosa è rimasto immutato, dai suoi dodici anni. La Porta della misericordia è ancora serrata dalle pietre. E dall'altra parte, appena fuori dal Tempio, si stende un cimitero. Kulka questo lo sa, se lo ricorda. Fin troppo bene.

Gioulio Busi
Il Sole 24 Ore


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