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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Edmund De Waal, Un’eredità di avorio e d’ambra 19/12/2011

Un’eredità di avorio e d’ambra          Edmund De Waal
Bollati Boringhieri                                 Euro 18

E’ appena passata l’una di notte quando, il 12 marzo 1938, pesanti stivali salgono le scale di uno dei più giganteschi e sontuosi palazzi che affacciano sulla Ringstrasse di Vienna. Un drappello di giovani uomini con la svastica sul braccio irrompe e rovescia cassetti, fa a pezzi preziosi incunaboli, strimpella sul pianoforte spaccandone i tasti, fa sparire massicci argenti e, quando tutto il resto è distrutto, fa volare nel cortile uno scrittoio in un rovinìo di fregi. Viktor ed Emmy von Ephrussi, con il figlio Rudolf, schiaffeggiati e coperti di sputi, assistono al saccheggio.
Ma è solo un primo assaggio. Il peggio deve ancora venire per i ricchissimi ebrei che, originari di Odessa, commerciano in grano, finanziano ponti sul Danubio e reti ferroviarie in Russia e Francia. La sorte di molti degli appartenenti al clan Ephrussi, distribuiti tra Parigi e Vienna, è segnata dalle camere a gas, Emmy si suicida, Viktor
trascorre in estrema povertà gli ultimi anni in Inghilterra e, del loro patrimonio «arianizzato », nulla sfuggirà alla devastazione. Si salva solo Un’eredità di avorio e d’ambra, come recita il titolo del bellissimo libro del discendente
degli Ephrussi Edmund de Waal. L’eredità consiste in 269 minuscoli capolavori giapponesi scolpiti nell’avorio: a ficcarli nella fodera di un materasso è la fidatissima domestica, peraltro una gentile, che alla fine della guerra li restituirà alla figlia di Viktor. Partendo da pochissimi documenti, de Waal si è cimentato in una ricostruzione di un’atmosfera e di un’epoca altamente suggestive: il libro ha conquistato il mercato con sette edizioni negli Stati Uniti e 200 mila copie vendute in pochi mesi in Gran Bretagna. Molto integrati, scarsamente religiosi, gli Ephrussi -
allo scoppio della prima guerra mondiale possedevano un patrimonio di circa 400 milioni di dollari attuali - incarnarono l’anima mondana, culturale e artistica del Vecchio Continente. Charles von Ephrussi nella capitale francese dirigeva la prestigiosa «Gazette »: vi faceva collaborare l’amico Proust (non sempre benevolo nei confronti degli ebrei) e da gran collezionista acquistava e sosteneva economicamente Manet, Monet, Degas, Pissarro, Moreau, Renoir (pronto a denigrare gli israeliti insieme ai livorosi de Goncourt che definivano Charles maleducato, insopportabile in quei salotti «infestati da ebrei e da ebree»). Di questa famiglia dalla presenza
tanto articolata, della sua vita quotidiana, delle lettere, dei diari, quasi nulla rimane. Tutto viene rubato, demolito, bruciato. A questa cancellazione contribuisce il dopoguerra, quando, non solo non si restituiscono beni, palazzi, libri, opere d’arte, ma si continua a considerare la vita degli Ephrussi come scritta sull’acqua. Nel 1953 viene chiesto al presidente dell’associazione banchieri austriaci di ricostruire la storia di quella banca in cui era socio di Viktor e che da lui stesso fu consegnata nelle mani dei nazisti. La risposta è netta: «Non ne so niente» (nel 1948 al novanta per cento degli ex iscritti al partito nazista viene concessa l’amnistia che dopo dieci anni è estesa pure ai membri di Ss e Gestapo). Così solo il 42enne ultimo erede dei commercianti di Odessa, molti decenni dopo, con il suo scritto ha restituito concretezza a quelle ombre che contribuirono al rigoglio e alla prosperità artistica dell’Europa finita in cenere.

Mirella Serri
Tuttolibri – La Stampa


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