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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Joseph Roth, Fuga senza fine 22/08/2011

Fuga senza fine                             Joseph Roth
Traduzione di Maria Grazia Manucci
Adelphi                                               Euro 13

Quando Joseph Roth, il 30 maggio del 1939, fu seppellito nel cimitero Thiais di Parigi, a dargli l'ultimo addio c'erano vecchi anarchici, comunisti, ufficiali dello scomparso impero di Francesco Giuseppe, preti cattolici. Ciascuno di loro riconosceva nello scrittore una parte di sé dei propri ideali. Percorrendo diversi paesi europei come inviato di giornali, Roth aveva intuitivamente anticipato tutti i pericoli che sarebbero scaturiti dal concetto razziale di Popolo e di Nazione come fondamento dell'identità, che ormai era diventato la malattia del secolo e avrebbe portato dritto ai massacri della Seconda Guerra Mondiale. La Prima aveva avuto per Roth due effetti determinanti. Da una parte si era dissolta la monarchia austro-ungarica, sul cui confine orientale Roth era nato, in una cittadina di 17.000 anime, di cui tre quarti ebree, nella Galizia; e insieme quell'ordine che garantiva la convivenza di popoli che ora usavano la propria libertà per erigere barriere e confini; e dall'altra la voglia di ripiegare sempre di più dentro il perimetro della propria cultura e della propria identità nazionale rendeva i popoli "più poveri, più cattivi e più vili". Le speranze dello scrittore in una "vita nuova" dopo la fine della guerra naufragarono presto. In Germania con le tendenze autoritarie della Repubblica di Weimar crescevano l'antisemitismo, il revanscismo dei militari e degli industriali e la loro alleanza con le squadre di Hitler; mentre un viaggio nel pianeta sovietico tolse allo scrittore ogni illusione su un'esperienza rivoluzionaria che si era fatta spietata.
«Non ho inventato nulla, non ho composto. Non si tratta di "poetare". La cosa più importante è osservare», scrive nell'introduzione a Fuga senza fine, uno dei suoi romanzi più belli che definisce ein Bericht, un reportage. Considerato il più autobiografico tra i suoi romanzi, racconta un mondo, quello dell'impero asburgico, e una civiltà, quella ebraica dello shtetl nell'Europa orientale, condannati entrambi a scomparire. Il prigioniero di guerra Franz Tunda fugge dal campo di prigionia nei pressi di Irkutsk e compie un viaggio avventuroso attraverso le steppe siberiane, cambiando modi di vita (si arruola perfino nell'Armata Rossa), nomi e mete del suo viaggio, fino a raggiungere Vienna, e poi Berlino e infine Parigi. Ma non c'è un ritorno a casa, la fuga non ha fine. L'ultima casa dove Roth aveva abitato era stata sulla Postdamer Strasse di Berlino, dov'era andato a vivere nel 1922 con la moglie Friedl che pochi anni dopo, ricoverata in un ospedale psichiatrico, fu uccisa dai nazisti. Dal '23 fino al maggio del '39, quando morì letteralmente di delirium tremens in un ospedale per poveri di Parigi, Roth era vissuto e aveva scritto solo in camere d'albergo, nei bistrò e nei caffè. Del "mondo di ieri" come lo chiamava il suo amico Stefan Zweig, non restavano che cadaveri e ombre.

Vanna Vannuccini
La Repubblica


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