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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Angel Wagenstein, Adamo l’ubriacone 01/08/2011

Adamo l’ubriacone                   Angel Wagenstein
Traduzione di Sibylle Kirchbach
Dalai editore                                       Euro 18

E’ un prezioso omaggio a Plovdiv, una cittadina conficcata nel cuore della Bulgaria dove è nato nel 1922, l’ultimo struggente romanzo di Angel Wagenstein.
Dopo il degradato quartiere di Honk Yu nel quale trovarono rifugio più di ventimila ebrei tedeschi ed austriaci in fuga dal nazismo, scenario del suo primo romanzo “Shanghai addio (Baldini Castoldi Dalai) e dopo il villaggio galiziano di Kolodez presso Drohobycz che costituisce lo sfondo de “I cinque libri di Isacco Blumenfeld”, opera con la quale Wagenstein ha vinto il premio Adei Wizo 2010, questa volta lo scrittore bulgaro ha scelto di tornare nella sua città natale e attraverso il personaggio di Berto Cohen, professore di bizantinistica, raccontare un mondo ormai scomparso.
L’onda dei ricordi emerge nella struggente rievocazione dei luoghi “…le viuzze lastricate, costeggiate da file di acacie polverose e cordicelle di bucato che svolazzano sotto i pergolati” e dei personaggi magistralmente ritratti.
Giunto a Plovdiv per un congresso, Berto Cohen che da molti anni vive in Israele e si confronta ogni giorno con la dura realtà del terrorismo di cui la moglie e la figlia sono rimaste vittima, ripercorre con lieve nostalgia e un pizzico di malinconia i luoghi dove soleva recarsi nell’infanzia e rivive le emozioni, le gioie, le avventure condivise con i compagni di scuola e in particolare con la dolce Araxi Vartanian, la piccola armena dai riccioli neri che per prima gli ha fatto battere il cuore.
In un continuo alternarsi fra passato e presente l’autore, con raro talento narrativo, ci offre uno squarcio indimenticabile di un’epoca passata facendo rivivere personaggi bizzarri e originali, tutti pervasi da una straordinaria ricchezza umana.
Nel piccolo quartiere di Orta Mezar dove si ode parlare judezmo o judeo-espanol, la lingua degli ebrei sefarditi, il piccolo Berto vive con la nonna sefardita Mazal “che all’età di sedici anni era stata così cretina da innamorarsi proprio di quel sognatore e buono a nulla di Abramo” e il nonno che tutti chiamano Abramo el borracho – ovvero l’ubriacone – che lavora come lattoniere nell’officina presso il Ponte di legno.
E’ con una nonna i cui sogni non oltrepassano mai i confini del quartiere e che accetta la vita con spirito di sopportazione e un nonno, ubriacone sì ma dotato di prodigiosa memoria e talento affabulatorio che Berto cresce dopo essere rimasto orfano dei genitori.
Nel complesso microcosmo rappresentato dalla Plovdiv dei primi anni del Novecento, uno dei luoghi più cosmopoliti dei Balcani, Berto si confronta con popoli, religioni e lingue diversissimi traendo da ciascun abitante di Plovdiv una preziosa lezione di vita; è dal rabbino Menashe Levi, dal mullah Ibrahim hodja, dal pope ortodosso Isai, inseparabili amici e complici nelle avventure più bizzarre del nonno Abramo, che il giovane Berto incassa alcune sberle “prima di imparare una volta per tutte” come ci si comporta nelle case del Signore.
E l’incontro di Berto ormai adulto con il fotografo e “cronista” greco Costas Papadopoulos detto “Costaki l’eterno” è un modo per ripercorrere, attraverso le immagini di quell’artista della fotografia  un tempo “raggiante e raffinato”, i ricordi delle birichinate e dei momenti allegri in cui insieme ad Araxi “bigiava” la scuola per fare un bagno, rigorosamente “proibito” dall’apprensiva nonna Mazal, nel fiume Maritza che “portava a quell’epoca così tanta acqua che sarebbe bastata per riempire almeno tre mari…”.
Pervaso da un sottile umorismo è l’incontro di Berto con l’universo femminile rappresentato dalle giovani donne, musulmane, ebree e cristiane che nei fine settimana - ciascuna osservando rispettosamente la propria religione – si recano al bagno rituale e ne escono “linde e immacolate”, “la pelle candida e rosea”, “chi a viso scoperto, chi avvolta in un velo”, suscitando immancabilmente sospiri nostalgici.
Se in questo romanzo la Shoah appare sullo sfondo l’autore, figlio di comunisti, non risparmia una critica pungente alla Bulgaria sovietizzata degli anni del dopoguerra restituendoci un affresco impietoso della modernizzazione del dopo ‘89.
Come Isacco Blumenfeld che ha attraversato il Novecento con capriole di confini e nazionalità nel suo precedente romanzo, è Abramo el borracho l’indiscusso eroe dell’ultimo libro di Wagenstein, un personaggio indimenticabile per l’arguzia, l’intelligenza e la generosità che ne fanno il testimone privilegiato di un mondo sul quale è calato il crepuscolo ma non l’oblio.
La stessa vita di Angel Wagenstein è quasi un romanzo, come lui stesso ha confermato a Milano in occasione del prestigioso riconoscimento letterario ADEI WIZO 2010: “…La mia vita è stata complessa, bizzarra e imprevedibile. Mio padre era un lattoniere ed era comunista. Per le sue idee è stato messo in prigione  ed è in una cella che l’ho incontrato la prima volta”.
Dopo essere cresciuto in Francia dove la famiglia era emigrata per ragioni politiche, torna in Bulgaria a seguito di un atto di amnistia e si unisce ad un gruppo antifascista.
Capo di una cellula di sabotatori a Sofia è catturato e condannato a morte: l’Armata rossa lo salva dall’esecuzione. A Mosca studia alla scuola di cinematografia, diventa sceneggiatore e regista e nel 1959 è premiato a Cannes. E’ invece con il romanzo Shanghai addio che riceve nel 2008 in Francia il premio Jean Monnet per la letteratura europea. Una vita rocambolesca e avventurosa quella di Wagenstein costellata da incontri importanti con il generale Giap, in occasione di un documentario girato in Vietnam, e con Ejzenstejn nella Mosca “nera e povera” degli anni quaranta.
Interprete magistrale di luoghi ed epoche ormai scomparse Angel Wagenstein ritrae, con ritmo narrativo avvincente ed una cifra linguistica che mescola umorismo e saggezza, le debolezze, l’amore, l’orgoglio, l’indifferenza e il coraggio degli uomini in un perenne dialogo fra passato e presente.
Con la consapevolezza che la vita “è davvero complessa e molto più imprevedibile di quanto non si creda”.

Giorgia Greco


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