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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Luciano Tas
Le storie raccontate
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1971: la quarta parte di "Quaranta e li dimostra" 23/10/2008
 

Tutto era incominciato a giugno del 1970. Il giorno 15 la “Leningradskaya Pravda” annunciava che era stato sventato il tentativo di “un gruppo di criminali di impadronirsi di un aereo di linea allo scopo di farlo dirottare”. Si trattava di tre donne e nove uomini, tutti ebrei, arrestati, riferiva il quotidiano sovietico, mentre stavano per imbarcarsi su un aereo dell’Aeroflot a 12 posti in servizio su una linea interna.
All’alba dello stesso 15 giugno altri otto ebrei di Leningrado venivano arrestati e quasi contemporaneamente a Mosca, Riga, Kharkov, Tiblisi e altre località ancora venivano effettuate perquisizioni nelle case di altri ebrei, dodici dei quali seguivano la sorte di quelli di Leningrado. Insomma, una vera e propria retata.
Nel corso delle perquisizioni il KGB, la polizia politica, sequestrava tutti i  libri di argomento ebraico trovati nelle case.
A queste notizie i media italiani davano scarsa copertura, ma il 23 giugno l’inglese “The Guardian” titolava con grande rilievo “The Phoney Hijack” (il dirottamento fasullo) dando anche i primi nomi degli arrestati.
Nemmeno l’arresto il 7 luglio di altri ebrei di Riga e a Leningrado sembrava impressionare i media e il mondo politico italiano. Eppure queste retate e i relativi grottechi capi d’accusa erano legati al coagularsi di una particolarissima forma di dissenso, specificatamente ebraico, nel senso che gli ebrei dell’URSS non entravano nel merito politico di una dittatura, ma al governo chiedevano con voce sempre più forte due cose: il riconoscimento del loro diritto di attingere alla loro cultura, laica o religiosa che fosse, brutalmente soffocata durante gli anni di Stalin,  e quello di emigrare per raggiungere quella che non solo loro, ma anche il regime, consideravano la loro vera patria.
Il coagularsi di questa forma di dissenso che non metteva in discussione il regime ma per così dire lo “bypassava”, sorprendeva un Cremlino che,  ancora in odore di stalinismo, non intendeva consentire alcun tipo di dissenso, e metteva in moto la macchina del KGB. Quindi arresti, accuse, pretesti, invenzioni smaccate-
Gli “ebrei del dissenso” rispondevano a loro volta riempiendo gli uffici dell’OVIR (preposti all’esame di qualunque richiesta di espatrio) di domande di emigrazione. E siccome gli ebrei in URSS non erano considerati una religione (del resto tutte malviste e peggio), ma una nazionalità con tanto di regione autonoma, il Birobigian, la motivazione delle loro domande di uscita era semplice: se siamo di nazionalità ebraica vogliamo raggiungere lo Stato ebraico.
L’inventiva del KGB non era molto più sagace di quella dei loro predecessori dell’Enkadevé e dei tribunali sovietici del ’36-’38. Come allora i “colpevoli” non erano accusati solo di tradimento “attuale”, ma di essere sempre stati dalla parte dei nemici del comunismo. Così i “sionisti” erano stati complici dei pogrom contro gli ebrei nella Russia zarista, che il segretario personale di Rasputin era un cospiratore sionista e così via.
Su queste basi, si dimostrava come non solo i sionisti non si fossero opposti allo sterminio degli ebrei durante la guerra, ma vi avessero preso parte attiva. I sionisti, per esempio, avevano partecipato insieme ai nazisti anche al massacro di Bai Yar, un’accusa che era sembrata “eccessiva” perfino ai circoli degli intellettuali “integrati”.
Questo stato di cose non avrebbe eccessivamente commosso un Occidente intimidito dalla Sinistra, interprete autentica del Verbo e soprattutto con il comandamento “pas d’ennemis à gauche” in URSS.

Ma Stalin non c’era più e i suoi epigoni non ne possedevano l’astuzia.
Così vollero esagerare. Il 15 dicembre 1970 cominciava a Leningrado il processo conto venti ebrei “mascalzoni e schizofrenici” per un “tentativo di dirottamento” che non risultava nemmeno negli atti processuali. E pour cause.
Può darsi che questo gruppetto, abboccando a un amo che gli era stato gettato, avesse avuto l’intenzione di salire su un piccolo aereo di linea per dirottarlo, ma non aveva avuto nemmeno il tempo di entrare in aeroporto. Erano stati “scoperti” prima di mettervi piede.
Il processo, come in uso nei bei tempi d Stalin, durava pochi giorni e si concludeva con una serie di pesantissime condanne, tra cui due a morte.
Ma non si era più nel 1936, Vishinskij non era più in tribunale, la durezza delle sentenze e l’assurdità delle accuse non passavano sotto silenzio. Appunto, Mosca aveva esagerato.
Una ondata di proteste, anche da parte di comunisti o simpatizzanti di altri paesi (tra i quali in Francia Sartre, Malraux. Costa-Gavras, Yves Montand, Vercors, Barrault e centinaia di filosofi, politici, intellettuali, artisti).
In Italia persino l’Unità (27 dicembre), ancora di stretta osservanza, definiva la condanna una “sentenza incomprensibile”, anche se rifiutava di “associarsi alla nuova campagna antisovietica che sul processo di Leningrado si viene montando”.

Non si associava invece all’Unità il senatore ed ex Presidente della Camera Umberto Terracini. Su “Vie nuove”” del 20 gennaio 1971 scriveva che “i governanti sovietici da lungo tempo hanno costituito quella minoranza nazionale ebraica in un test fra i preferiti delle loro frequenti escursioni nel campo della illegalità socialista”.
Le espressioni di condanna della sceneggiata di Leningrado erano migliaia anche in Italia, dal Presidente della Camera Sandro Pertini al ministro Aldo Moro, ai partiti: Democrazia Cristiana, Partito Repubblicano, Partito Liberale, Partito Socialista e Partito Socialista Democratico, le Segreterie di CGIL, CISL e UIL, l’ANPI, la Federazione Volontari della Libertà, e moltissimi Comuni, il Sindacato Scrittori Liberi, e una serie lunghissima di nomi eccellenti.
La stampa era unanime nell’indignazione per un processo di puro stampo staliniano. Unanime? Non proprio. Anche l’Unità giudicava incomprensibili “molte cose nello svolgimento e nelle conclusioni del processo di Leningrado”, ma attaccava la stampa e quanti conducevano una campagna antisovietica servendosi di quel processo, ma attaccava soprattutto “i governanti dello Stato d’Israele che vi si sono prontamente messi alla testa allo scopo evidente di coprire la propria politica reazionaria e aggressiva”.
Tra il 23 e il 25  febbraio si svolgeva invece a Bruxelles la “Conferenza mondiale delle Comunità ebraiche per gli ebrei dell’URSS” a cui partecipavano rappresentanti di 37 paesi.
Questo incontro si proponeva soltanto di testimoniare un’ampia, corale solidarietà  da parte degli ebrei di tutto il mondo nei confronti dei loro confratelli nell’URSS. Qualcosa come un immenso corteo che avrebbe visto l’ebreo australiano accanto a quello francese, quello americano all’italiano o inglese o brasiliano o  austriaco…

Ma qui Mosca commetteva un errore. Non sopportando la manifestazione, inviava a Bruxelles una specie di contro-delegazione ad alto livello. La guidava formalmente il generale Dragunskij, ebreo di corte, guardato a vista da uomini del KGB.
Il montare della faccenda faceva la gioia della stampa e delle televisioni di tutto il mondo perché lo “spettacolo” diventava pepato. E lo era  davvero. Un avvenimento cui sarebbe stato dato uno spazio limitato copriva ora le prime pagine.

La posizione sovietica era indifendibile. Il processo di Leningrado diventava una crepa nel muro dell’impero sovietico che sarebbe stato costretto a rivedere le condanne, a ridurle, e a cancellare quelle a morte.

L’URSS usciva dall’avventura di Bruxelles con le ossa rotte.
Il generale Dragunskij un giorno indice una conferenza-stampa. Due giornalisti italiani si portano un loro interprete di fiducia che “corregge” le traduzioni “politiche” del collega sovietico. Infine Dragunskij conclude l’intervista ricordando un presunto detto sovietico: “E’ meglio essere felici in una piccola casa che infelici in un castello”. Scusi generale, qual è la piccola casa, l’URSS?
Il generale ripete il detto, saluta e se ne va senza rispondere. Forse ha sbagliato il compito.  Il suo traduttore KGB lo guarda di traverso.
Dall’Asia rumore di ferraglie.
Ad aprile il Pakistan perde una costola. La Lega separatista Awami proclama la Repubblica del Bangladesh, una delle regioni più povere del mondo. La secessione è appoggiata, anche concretamente, dall’India e questo naturalmente fa aumentare la tensione con il Pakistan. Una tensione che a dicembre sfocerà in guerra aperta. L‘URSS appoggia l’India (sua simpatizzante) e la Cina il Pakistan (in chiave antisovietica).
Interviene l’ONU per mettere fine al conflitto, ma quella che consegue è pace armata (anche con preoccupanti armi atomiche).
Molto movimento nello spazio. Mentre una sonda americana entra nell’orbita di Marte, l’URSS mette in orbita (terrestre) la prima stazione spaziale (Saljut) con equipaggio.
All’ONU intanto la Repubblica Popolare Cinese è accolta nel consesso mondiale, dove è chiamata ad occupare uno dei seggi permanenti del Consiglio di Sicurezza. Cina entra e Cina esce. Esce la Repubblica Nazionale di Taiwan (o Formosa), condizione richiesta da Pechino. Il “peso” di Taiwan è minore.
In Italia a dicembre è eletto alla Presidenza della Repubblica, dopo 23 scrutini e furiosi scontri, Giovanni Leone, già più volte Presidente (balneare) del Consiglio, con il contributo indiretto di una pattuglia di “franchi tiratori” che faceva affondare il candidato ufficiale della DC, Amintore Fanfani, di cui erano improvvisamente circolati alcuni (imprudenti) saggi e articoli scritti durante il fascismo, in elogio del corporativismo e delle leggi razziali.

 Luciano Tas

taslevi@alice.it


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