Femministe mute sul burqa a scuola Cronaca di Anna Lisa Terranova
Testata: Libero Data: 12 febbraio 2025 Pagina: 15 Autore: Anna Lisa Terranova Titolo: ««Burqa a scuola? Da vietare. Ma le femministe tacciono»»
Riprendiamo da LIBERO di oggi, 12/02/2025, a pag. 15, con il titolo "«Burqa a scuola? Da vietare. Ma le femministe tacciono»" il commento di Anna Lisa Terranova
La Lega invoca una legge per vietare il velo integrale nelle scuole e nei luoghi pubblici, proprio nei luoghi dove dovrebbe essere insegnato il rispetto per la donna e dove dovrebbe iniziare l'integrazione degli immigrati musulmani. Le femministe dovrebbero essere in prima fila, per combattere questa battaglia. Invece tacciono, complici dell'islamismo.
È tra i banchi di scuola che l’integrazione dovrebbe avvenire, e quello è infatti il luogo da cui si dipanano le polemiche che con l’integrazione hanno a che fare: che si tratti di scuole che chiudono per il Ramadan o che adottano menu “inclusivi”, o ancora che si vedono costrette ad affrontare il tema del velo integrale. È accaduto da ultimo all’istituto superiore Sandro Pertini di Monfalcone, dove quattro ragazze indossano il niqab (il velo integrale) facendo insorgere la Lega che invoca una legge per vietarlo, assieme al burqa, nei luoghi pubblici.
La discussione non è nuova e sul tema anche le donne musulmane hanno voluto prendere posizione. Dounia Ettaib, presidente dell’associazione Donne arabe in Italia, aggredita dai fondamentalisti islamici per le sue posizioni troppo “moderne”, ha raccontato che, quando partì per l’Italia, sua cugina salutandola le disse: «Non credere mai che una donna è felice di velarsi, ogni donna privata della scelta è una donna non libera». Dovrebbe essere ovvio, ma c’è invece chi difende il velo (non integrale) come la scrittrice Sumaya Abdel Qader, che il Pd fece eleggere a palazzo Marino, e che ha messo in bocca alla protagonista di un suo romanzo queste parole: «Portare il velo è il più grande segno di emancipazione di una donna, oggi come oggi un atto ribelle e femminista». Sarà per questo che sulla questione del niqab le femministe di oggi non sembrano aver nulla da dire.
Non così una femminista vecchio stampo come Marina Terragni, di recente nominata Garante per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, che ha subito messo in chiaro che il niqab in classe andrebbe vietato. E a chi obietta che in caso di divieto del velo integrale le famiglie potrebbero ritirare da scuola le figlie, Terragni replica: «Intanto fino a 16 anni c’è l’obbligo di frequenza della scuola al quale bisogna ottemperare. Dopo i 16 anni le ragazze che si vedessero impedite nel loro legittimo desiderio di proseguire gli studi potrebbero segnalare il loro caso chiedere aiuto».
Nell’istituto di Monfalcone la preside ha trovato una mediazione che finora consente alle studentesse velate di frequentare i corsi: vengono ogni mattina riconosciute da una docente deputata a verificarne la presenza a scuola, e solo davanti a lei mostrano il loro volto. «Ma io dico – commenta Terragni – pensiamo a queste ragazze che ogni mattina subiscono questo rituale di identificazione, dopo di che stanno a scuola senza fare ginnastica, senza un’efficace relazione coi compagni e le compagne, addirittura senza poter partecipare ai percorsi di scuola-lavoro. Così una ragazza non sviluppa armoniosamente la propria personalità, in queste condizioni si dà un segnale inammissibile a tutti gli studenti di quella scuola, e il segnale è che il corpo femminile va tenuto nascosto, perché ritenuto impuro, perché ritenuto motivo di disordine. Non è accettabile».
A questo punto, la cosa peggiore che si possa fare dinanzi a questo fenomeno è che ogni scuola si regoli per proprio conto, magari attraverso un compromesso, sia pur dettato da buon senso, come nel caso dell’istituto di Monfalcone. È necessaria una legge ad hoc, che aggiorni quella del 1975 che vieta di stare a volto coperto nei luoghi pubblici per motivi di sicurezza. Anche il ministro Valditara è di quest’idea. In Francia hanno scelto una strada radicale: vietare in classe ogni simbolo religioso, dal crocifisso al velo in nome della laicità dell’istituzione.
Una normativa sulla quale Terragni si mostra perplessa: «Non sono per vietare i simboli religiosi. Non la metterei su questo piano, anche perché le autorità islamiche forniscono sull’obbligo del velo spiegazioni differenti. Chi dice che non c’è nulla nel Corano che giustifichi il chador o il niqab e chi dice il contrario. Io voglio partire invece dal principio della libertà della donna. Dal diritto elementare di ogni donna, di ogni persona, di presentarsi al mondo col proprio corpo, col proprio viso. Non si può umiliare una donna sostenendo che il suo viso o il suo corpo vanno nascosti perché suscitano il desiderio maschile e quindi sono causa di disordine. I veli integrali sono prigioni portatili».
Il neofemminismo di “Non una di meno” sul punto però non dice una parola. È come se tutta la sinistra, in verità, non abbia ancora deciso quale sia la posizione giusta da prendere sulla questione del velo integrale. Un mero fatto culturale di cui è meglio non impicciarsi o un ostacolo all’integrazione delle donne islamiche in Occidente?
«”Non una di meno” – osserva Marina Terragni – organizza manifestazioni due volte l’anno, l’8 marzo e il 25 novembre, ma le ragazze non sono sempre consapevoli delle parole d’ordine con le quali sono in piazza. A cominciare dagli slogan pro Pal». Il loro è un antagonismo che, appunto, non risparmia l’Occidente.
«Parlare di libera scelta rispetto al velo integrale – conclude la Garante per l’infanzia – è una profonda ipocrisia. Non si può liberamente scegliere di non respirare, di non vedere nel caso del burqa, di morire di caldo, di non entrare in relazione con gli altri compagni di scuola. Semmai si tratta di condizionamento profondo. E il caso di Monfalcone non è certo l’unico. In alcune scuole il problema coinvolge persino le bambine e i movimenti per i diritti della donna in Iran e in Afghanistan, dove si è disposte persino a morire per poter scegliere davvero, ci ammoniscono proprio su questo, ci implorano di non cadere nella propaganda che usa l’espressione libera scelta per giustificare l’oppressione delle donne, per impedire loro di essere davvero libere di scegliere».
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