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Bet Magazine Rassegna Stampa
10.02.2025 Singer: Viaggio in Israele
Commento di Fiona Diwan

Testata: Bet Magazine
Data: 10 febbraio 2025
Pagina: 22
Autore: Fiona Diwan
Titolo: «Israele? Una grande pergamena bianca su cui scrivere»

Riprendiamo da BET Magazine di gennaio 2025, a pagina 22, il commento della direttrice Fiona Diwan dal titolo: "Israele? Una grande pergamena bianca su cui scrivere"

Vita e sogni, poesia e regole: l'etica della riconoscenza nel Talmud |  Kolòt-Voci
Fiona Diwan

Editore Giuntina

“Qui il tempo ha lasciato pochissime tracce. Se Israele fosse pieno di resti archeologici come Roma o la Grecia, forse sarebbe un paese diverso, per i turisti e i fotografi. Invece Israele è come una grande pergamena bianca il cui testo è stato cancellato e ne è rimasto solo il profumo, e vi si può scrivere di nuovo e forse cancellare di nuovo, se sarà necessario”.

Bastano queste poche righe per catapultarci nel mondo di Isaac Bashevis Singer, autore di Viaggio in Israele, il reportage a puntate scritto tra l’ottobre e dicembre 1955 per il giornale yiddish Forwerts dallo scrittore premio Nobel, e oggi pubblicato in volume da Giuntina direttamente in traduzione dallo yiddish.

Siamo a pochissimi anni dalla nascita dello Stato e Singer ci restituisce in questi articoli il senso di meraviglia per quello che ha sotto gli occhi nei due mesi in cui ne percorre le strade polverose: i paesaggi, le ma’habarot, le città, il deserto, le colline. Incontri, odori (e puzze), suggestioni, luoghi e su tutto la stupefazione di uno scrittore nutrito di misticismo, umorismo e senso del miracolo.

Ecco allora lo sguardo di Bashevis che vaga dal balcone di un albergo di Zfat e abbraccia il monte Meron che si dispiega davanti: “Forse è una suggestione o chiamatela come volete, ma mi pare che questo monte brullo sia la fine del mondo. Fino a qui c’è ancora la terra dei peccatori. Da lì in poi inizia qualcosa che è al di là del tempo e dello spazio. Perché, per quale motivo questo monte è così silenzioso, così totalmente assorto nei suoi pensieri? Non è un monte ma un gigante pietrificato, un bisonte celeste o forse uno degli angeli caduti che per qualche tempo si è innamorato di una ragazza ebrea, ne è rimasto presto deluso ed è restato paralizzato… Lì, attraversando quei monti, si può passare dall’aldiquà all’aldilà”, scrive.

Il reportage srotola sotto i nostri occhi la rude freschezza di una realtà appena nata e già così ricolma di promesse e incertezze. Le parole di Singer avvolgono in un vortice arcano e realistico al tempo stesso, catturando dettagli, sfumature e situazioni a volte uniche, a volte ordinarie. E così lo scrittore elenca dettagli a raffica, “sputandoli come piselli”: come ci si veste, cosa si mangia, cosa si beve, come si guida, quanto costano un litro di latte, un uovo, la verdura, gli alberghi, l’affitto di una casa. A chi lo avverte che Tel Aviv è brutta lui risponde che non è vero, è bellissima, accogliente, aperta con le sue ariose verande, e che qui non c’è traccia di snobismo: Tel Aviv gli ricorda Varsavia, Vilna, Berdicev, East Brooklyn, una città-enciclopedia dove convivono tutte le culture del mondo, le Fraulein accanto alle miss e alle mademoiselle… E poi ecco spuntare i volti del passato, incontri impensabili con scrittori e poeti di Varsavia creduti morti nella guerra e invece ritrovati qui, e poi le visite alla Knesset e al kibbutz Beit Alpha (“il kibbutz è la combinazione di una fattoria e di un villaggio vacanze”).

Singer annota stupefatto che qui non c’è antisemitismo, che si parla yiddish ovunque, che ci sono balconi dotati di persiane (trisim) dappertutto, che Israele è il paradiso delle librerie ma è raro vedere gente ben vestita. E poi come spiegare il misterioso coraggio degli ebrei d’Israele, il loro eroismo, questo tener duro tra un mare di arabi e nazioni che vogliono solo farli fuori? Da quand’è che gli ebrei sono diventati così eroici?, si chiede Singer, questa è forse “una terra che partorisce eroi?”…

Lo stile del racconto resta inconfondibile: Singer continua a scrivere con la penna intinta nell’inchiostro del miracoloso, quello di un chassidismo polacco che sogna da sempre il ritorno a Sion, immerso in quell’atmosfera di devekut divenuta proverbiale, l’intensità spirituale, la devozione, la vicinanza al divino del misticismo chassidico. E mescola il tutto con lo humour della cultura yiddish, con le reminiscenze bibliche, la storia ebraica con l’ethos sionista e la patria ritrovata. Singer vede riferimenti ovunque all’eredità religiosa e famigliare ricevuta in Polonia, tutto rimanda ai testi religiosi studiati da bambino: Saul che cade sul monte Ghilboa, un beduino seduto sul ciglio della strada che sembra il profeta Giona mentre sonnecchia all’ombra di un albero di ricino, le tombe degli tzaddikim a Tiberiade… Ma il suo entusiasmo è pari al suo pragmatismo, la quotidianità è narrata con humour, l’occhio è asciutto e indagatore, mai commosso, mentre osserva e coglie dettagli indelebili, ascolta i dibattiti pubblici e le diatribe ideologiche tipiche della società israeliana, la dialettica tra guerra e libertà, le tensioni tra ashkenaziti e sefarditi, tra laici e religiosi, il brontolio degli europei che rimpiangono la madrepatria, gli yekke tedeschi a cui viene l’orticaria se solo si ritrovano in compagnia di Ostjuden russi e polacchi…

In queste pagine, Singer sembra ancora provare una intensità di fede e devozione che andranno in parte smarrite dietro l’intellettualismo e il senso critico dei suoi successivi romanzi americani, ci fa notare lo studioso David Stromberg nell’introduzione.

Qui, i cieli del Neghev e di Zfat sono pieni di spiritelli polacchi. Quello che sembra colpirlo nell’Israele del 1955 è questo sforzo di tenere insieme delle forze che tendono costantemente a separarsi, questo riunire e legare insieme persone che sono agli antipodi, culture diverse e opposte malgrado le radici ebraiche comuni. Una realtà israeliana costruita apparentemente dal nulla, dove sopra ogni cosa sembra regnare uno spirito di libertà e di speranza tipicamente ebraiche, scrive.

Un rapporto a dir poco complesso quello di Singer con Israele. Mosè non ha avuto il privilegio di entrarvi, Herzl non ha avuto la fortuna di veder realizzato il suo sogno, “invece io che non ho alzato un dito per costruire questo Stato vi entro come un generoso parente acquisito”, annota. Singer abita dal 1935 sulle sponde dell’Hudson, a New York, insieme ai numerosi scampati alla Shoah.

Sta costruendo la sua fama, non ha mai conosciuto davvero il figlio Israel Zamir che vive in kibbutz in Israele, né si è mai emozionato particolarmente parlando di sionismo, anzi, lui ha sempre detestato tutti gli ismi del Novecento (socialismo, marxismo, sionismo…). Nel momento del suo viaggio in Israele, nel 1955, Bashevis Singer ha appena pubblicato in inglese i racconti di Gimpel l’idiota tradotti da Saul Bellow (1952), non è ancora conosciuto dal grande pubblico ma solo dai lettori yiddishofoni, è ancora lontano dall’essere lo scrittore aureolato di gloria degli anni Settanta e Ottanta.

Non ha ancora una immagine da difendere o da rinforzare, quella del magician of West 86th Street, l’incantatore della 86° strada, quella dell’ultimo grande “sacerdote” della letteratura yiddish.

Per questo forse la sua libertà di scrittura qui è ampia, da reporter attento che si concede inusitati squarci di lirismo nel descrivere la grezza realtà della giovane Israele per restituircela attraverso l’unicità del suo sguardo. “Forse un angelo apparirà anche a me e mi spiegherà qual è la via dell’ebraismo?”, si chiede Singer. Per adesso, dice, accontentiamoci del volo solitario di un uccello, di sicuro un messaggero delle sfere superiori.

 

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