Lettera: Un incontro inaspettato a Haifa
Cara Debora,
Prima di tutto mi scuso per non averle scritto durante il viaggio in Israele. Il tempo è volato e avevamo tanti impegni. Siamo tornati da due giorni e non riesco a smettere di pensare a un incredibile incontro fatto ad Haifa. Volevamo fare una passeggiata sulla spiaggia e ci siamo fermati a fare benzina prima di parcheggiare. Per puro caso il distributore era attiguo a un ristorante, un bel posto davanti al mare. Così abbiamo deciso di sederci e prendere un caffè. A questo punto mi sono accorta che a lato della strada, a sinistra rispetto al ristorante guardando verso il mare, c’era un monumento sul quale comparivano dei nomi e le relative età delle persone elencate. Ho cominciato ad avere un sospetto. Fino a quel momento mio marito non mi aveva detto nulla, lui aveva capito dove eravamo ma non voleva che mi assalisse la tristezza. Quel luogo, come tanti altri in città, era stato uno dei simboli della convivenza pacifica ad Haifa di tutti i suoi cittadini, persone di ogni etnia, di ogni religione…allora perché qualcosa era accaduto proprio lì? La tragedia aveva lasciato dei segni sul viso di un uomo che proprio in quel momento veniva intervistato davanti al monumento. Non conoscevo quell’uomo ma gli inconfondibili segni su quel volto in frantumi hanno aumentato il mio sospetto: forse quell'uomo aveva qualcosa a che fare con l’evento tragico? Perché era successo qualcosa di tragico lì, vero? Me lo chiedevo e poi l'ho chiesto a mio marito. Anche lui era sorpreso che fossimo capitati proprio lì, volevamo solo fare una passeggiata sulla spiaggia, rilassarci e contemplare il mare, e invece eravamo arrivati inaspettatamente in uno dei luoghi più carichi di dolore e sgomento di tutta la città. Dove eravamo? Il ristorante si chiama Maxim e mio marito mi ha raccontato la storia, quello che si ricordava: qualcuno si era fatto esplodere in quel luogo uccidendo molti innocenti, anche bambini, e non solo ebrei ma anche arabi. Abbiamo pagato in fretta il caffè, volevo avvicinarmi al monumento, volevo leggere i nomi, volevo conoscere le età delle vittime, volevo sapere di più. Pensavo che quell’uomo con il volto ricomposto, le cui cicatrici erano ancora visibili, doveva aver sofferto molto, ho immaginato che doveva essere un bambino al tempo della tragedia. Non ci siamo avvicinati troppo per non disturbare ma eravamo abbastanza vicini da sentire le voci. Purtroppo l’ebraico lo comprendo ancora poco, solo qualche frase, però era come se riuscissi a comprendere tutto: c’era tormento, desolazione, inquietudine, rabbia, struggimento, pena, una sofferenza indescrivibile. L’uomo parlava, poi si interrompeva, si voltava verso il monumento, poi parlava ancora, poi si guardava attorno, poi abbassava lo sguardo… Solo quando sono tornata a casa per conoscere tutta la storia nei dettagli ho scoperto il suo nome e ho scoperto che aveva perso la vista: Oran Almog aveva 10 anni quando fu colpito dall’esplosione nell'attentato al ristorante Maxim di Haifa il 4 ottobre 2003, e noi per caso siamo stati inconsapevoli testimoni del suo ritorno in quel luogo quel giorno, il 2 febbraio 2025, in occasione di un’intervista. E perché l’intervista proprio in quel giorno? Perché il giorno prima, il 1febbraio 2025, tra i 90 detenuti palestinesi rilasciati a cambio dei tre ostaggi israeliani c’era il complice dell'attentatrice, la donna omicida che si era fatta esplodere. Il complice della terrorista, ossia un altro terrorista assassino era tornato in libertà per poter avere indietro i tre ostaggi israeliani. Già, proprio quello lì che aveva assassinato due intere famiglie e quattro bambini, tra cui un neonato di due mesi, quell’assassino dei nonni di Oran Almog, di suo padre, di suo fratello e di suo cugino, proprio quello lì era tra i 90 detenuti rilasciati da Israele e con questo scambio un criminale se ne tornava tranquillamente in libertà. Sembra incredibile ma Oran Almog aveva anche dei parenti nel kibbuz Kfar Aza attaccato il 7 ottobre (ne parla sempre in questo video al minuto 1:15). Alcuni sono morti e altri rapiti, si è sempre espresso a favore dello scambio, però è evidente che tutto questo fa pensare. E mi ha fatto pensare...tanto. E me lo sono chiesto e continuo a chiedermelo: come si sentono i familiari di tutte le vittime di terrorismo che vedono i carnefici dei membri delle loro famiglie festeggiare la propria liberazione, acclamati da una folla che li ritiene degli eroi? E dunque questa folla urlante di gioia per il ritorno degli assassini, che cosa mi rappresenta? Una popolazione che vuole fare la pace con Israele? Lo sa Debora che cosa mi ha lasciato di pietra? Sono rimasta basita nel leggere le dichiarazioni del padre della donna omicida, che sono riportate nella pagina di Wikipedia. Ecco cosa ho letto: “In risposta alle azioni di sua figlia, il padre dell'attentatrice Taisir declinò tutte le condoglianze, dicendo invece che era orgoglioso di ciò che sua figlia aveva fatto e che “accetterò solo congratulazioni per quello che ha fatto. Questo è stato un regalo che ha fatto a me, alla patria e al popolo palestinese".
Allora uno si chiede: ma con chi dovrebbe fare la pace Israele?
Ma vorrei concludere questa lettera con un po' di speranza: deve esserci qualcuno che vuole la pace davvero anche da quella parte, dobbiamo trovare queste persone, devono esserci, non possono essere tutti come il padre di quella terrorista. Però da questo punto di vista tutti abbiamo una responsabilità: saper discernere, voglio dire, non si può scendere in piazza urlando in favore dei 'palestinesi' senza avere un minimo di cognizione di quello che realmente accade, anche questo è criminale ed è complice del terrorismo. Abbiamo una grande responsabilità, l’abbiamo tutti.
Mi dispiace che quel giorno non ho abbracciato Oran, sono rimasta a guardarlo e non ho avuto il coraggio di avvicinarmi, non sapevo chi fosse, non conoscevo la sua storia ma avevo troppo riguardo per il suo dolore.
Ringrazio lei e tutto il team di Informazione Corretta per quello che fate.
Shalom,
Milena Adda
Cara Milena,
La ringrazio per la sua bella lettera. Ricordo perfettamente l’attentato al ristorante Maxim di Haifa che costò la vita a 21 israeliani e 60 rimasero gravemente feriti. Lei ha avuto l’emozione e l’onore di incontrare uno di questi, rimasto cieco. L’assassina palestinese aveva solo 28 anni ma il fanatismo di cui era pregna le ha fatto sacrificare la propria vita pur di ammazzare qualche ebreo. Due famiglie, quattro bambini di cui il più piccolo aveva 2 mesi, furono massacrati per l’odio feroce che anima quella gente. Lei mi chiede con chi dovrebbe fare la pace Israele. Con nessuno e le parole del padre della terrorista sono molto chiare. Loro vogliono vederci tutti morti come è scritto sullo statuto di Hamas, della Jihad palestinese, dell’Olp e di Fatah. I prigionieri che Israele sta liberando per riavere a casa gli ostaggi sono quasi tutti ritornati al lavoro per cui sono stati educati dall’infanzia: il terrorismo. In Italia in questi giorni l’opposizione si sta stracciando le vesti perché è stato liberato Al Masri, un terrorista, un torturatore. Giusto. Chissà perché quella stessa opposizione non ha detto una parola di condanna contro Hamas, non una, anzi stanno accusando Israele di usare “troppa forza”. Questa ipocrisia e crudeltà mi fanno impazzire di rabbia. I politici che urlano contro la liberazione di Al Masri sono come quelli dei loro stessi partiti che portavano nel portafoglio l’immaginetta di Arafat, assassino, terrorista ma da amare e onorare perché ammazzava gli israeliani. La ringrazio ancora per la sua bella lettera che spero leggano in tanti e la saluto affettuosamente
Shalom
Deborah Fait.