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La Repubblica Rassegna Stampa
06.02.2025 Gaza dietro al progetto Trump
Commento di Maurizio Molinari

Testata: La Repubblica
Data: 06 febbraio 2025
Pagina: 31
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: «Dietro il progetto Riviera»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 06/02/2025, a pag. 31, con il titolo "Dietro il progetto Riviera", il commento di Maurizio Molinari.

Molinari: “Le sorti dell'Italia sono decisive per quelle dell'Europa” -  Mosaico
Maurizio Molinari

Trasformare Gaza in una "riviera del Mediterraneo" è una sparata di Trump che indica la volontà di sparigliare le carte nelle relazioni internazionali, come i dazi a Messico e Canada. Anche se il piano non verrà realizzato, il messaggio è chiaro: Hamas non deve tornare al potere a Gaza e i Patti di Abramo devono procedere con l'adesione dell'Arabia Saudita.

La volontà di Donald Trump di assumere il controllo della Striscia di Gaza per trasformarla in una “Riviera del Medio Oriente”, trasferendo altrove gran parte dei suoi oltre 2 milioni di abitanti, somma contenuti e metodo talmente “out of the box” – fuori dagli schemi - da descrivere l’inizio di un percorso strategico, non la fine.

I contenuti sono quelli di un presidente americano che, proprio come sul fronte dei dazi con Messico e Canada, è intenzionato a ribaltare le relazioni internazionali perché convinto che gli attuali equilibri penalizzino gli Stati Uniti. Se nel caso di Messico e Canada la minaccia delle “tariffe al 25%” è servita per spingerli a mobilitare le truppe lungo i confini al fine di arginare il passaggio illegale della droga fentanyl e dei clandestini, sul fronte della Striscia volerla “svuotare e trasformare” serve ad un triplice intento immediato: far capire a Hamas che non tornerà al potere, all’Iran che deve rinunciare a Gaza come piattaforma terroristica e a tutti i leader del Medio Oriente che la Casa Bianca è convinta di poter cambiare radicalmente l’assetto regionale attorno al volano dei “Patti di Abramo” fra Israele ed i Paesi arabi.

Trump adopera un linguaggio di rottura - a tratti brutale - perché il primo e fondamentale intento è convincere ogni interlocutore che le regole del gioco sono mutate. Gli Stati Uniti useranno “in maniera massiccia” la propria forza con una formula assai diversa da quanto visto dal 1945 in poi: priorità alla potenza economica e poi, a supporto, quella militare. Sotto questo punto di vista “prendere la responsabilità di Gaza” ripete ed esalta l’approccio che ha esordito con la volontà di “acquistare la Groenlandia”, “tornare in possesso del Canale di Panama” ed anche ipotizzare il “Canada 51° Stato americano”. Siamo di fronte ad un’escalation del ricorso al potere economico-commerciale per riaffermare la leadership americana.

Questa cornice serve ad imporre a tutti gli interlocutori un metodo “transactional” dove Trump debutta alzando, e di molto, la posta mettendoli davanti ad un bivio da poker: accettarla o lasciare il tavolo. Le reazioni negative che riceve non hanno altro effetto che rafforzare in lui la convinzione che questo metodo funziona.

Affermare che “gli abitanti di Gaza hanno diritto a vivere meglio, non fra le macerie, e lo faranno in una dozzina di luoghi fuori dalla Striscia” nasce dunque dalla scelta di voler mettere subito, sulla difensiva, tutti gli interlocutori. Far comprendere a Hamas che si è autoeliminata con il pogrom del 7 ottobre e non dominerà più Gaza. Far capire a Teheran che l’”Asse della resistenza” è morto e sepolto e deve prepararsi a rinunciare al programma nucleare per evitare di subire un devastante attacco militare.

Far accettare ai Paesi arabi la responsabilità di aiutare i palestinesi come non hanno mai voluto fare dal 1948, preferendo tenerli in una condizionedi profughi permanenti per usarli contro Israele. E far condividere a Israele il principio che pace e sicurezza comporteranno prezzi da pagare.

Ciò significa che Trump scommette sul governo dei contrasti da lui creati per arrivare ad una composizione del conflitto israelo-palestinese, modificando in maniera radicale premesse strategiche finora considerate immutabili. Vuole scuotere il Medio Oriente per spingere ogni leader, alleato o avversario, a ragionare fuori dagli schemi.

Dunque, Trump non ha un piano esatto per il futuro di Gaza, come non si esprime sulla soluzione dei due Stati, frutto degli accordi di Oslo del 1993, perché ciò che gli preme è chiedere a tutti i leader della regione di sedersi al tavolo con lui per una partita senza precedenti e con un’unica regola già scritta: alla fine l’esito dovrà non solo garantire pace, prosperità e sicurezza per tutti ma anche premiare gli interessi degli Stati Uniti.

Tenendo presente questa cornice si comprendono meglio le reazioni alle parole del presidente Usa. Se infatti il leader più in sintonia con Trump è il premier israeliano Benjamin Netanyahu, che alla Casa Bianca ha adoperato proprio l’espressione “out of the box” riferendosi al metodo da seguire, il primo segnale di apertura è arrivato da Teheran: “Se per Trump il problema è il nostro programma nucleare, può essere risolto”. L’Iran vuole sedersi al tavolo con Trump, proprio come l’Arabia Saudita che ribadisce il suo approccio di fondo: “Pace con Israele in cambio dello Stato palestinese”.

Gelida invece la reazione di Egitto e Giordania perché i due più importanti alleati arabi di Washington - da cui dipendono in maniera quasi totale sanno di non potersi tirare indietro davanti alle richieste di Trump, proprio come Messico e Canada nel match sui dazi. Se a tutto ciò aggiungiamo i complimenti di Trump al Qatar “Paese di grande aiuto” ed i suoi stretti legami con gli Emirati, siamo davanti ad una mappa del Medio Oriente che sta già cambiando sotto i nostri occhi. Da qui le reazioni più ostili: Hamas parla di piano “ridicolo ed assurdo” ed Abu Mazen, presidente dell’Autorità palestinese, di “violazione della legge internazionale”. Evidenziando il tassello che manca di più a Trump: una nuova leadership palestinese capace di sedersi al tavolo per negoziare “out of the box”, immaginando strade innovative rispetto al passato.

Insomma, il presidente Usa per ora spariglia in Medio Oriente perché seleziona i partner. Solo dopo, inizierà il vero negoziato sui nuovi confini e sugli assetti regionali. Siamo appena all’inizio. Ma questo significa che c’è un’opportunità anche per l’Europa: è il momento di decidere se affrontare, e magari tentare di condizionare, la sfida “transactional” in Medio Oriente o limitarsi alla resistenza passiva, relegandosi ad un ruolo marginale nel Mar Mediterraneo.

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