Crematorio freddo
Cronache dalla terra di Auschwitz József Debreczeni
Traduzione dall’ungherese da Dóra Vįrnai
Bompiani euro 18
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Per quante testimonianze si possano leggere sui campi di sterminio nazisti non sarą mai del tutto esaurita la conoscenza di quel crimine unico nella Storia dell’umanitą che č stata la Shoah. Ogni nuova testimonianza č un piccolo, prezioso frammento che si inserisce in un mosaico non ancora completo e che restituisce la voce non solo del sopravvissuto che racconta la sua terribile esperienza di haftlinge ma anche di chi non ha fatto ritorno e di coloro che non sono riusciti a raccontare perché era troppo doloroso rivivere il calvario vissuto nei campi della morte.
Per questo il libro di memorie di József Debreczeni, “Crematorio freddo” pubblicato in Italia da Bompiani nell’ottima versione di Dóra Vįrnai e inserito dal New York Times tra i dieci migliori libri del 2024, “č una testimonianza potente e profondamente umana dell’orrore dei campi”, come scrive Karl Ove Knausgard, autore de “La mia battaglia” che “attraverso vivide descrizioni di ciņ che ha visto e vissuto mette il lettore di fronte all’inferno che č stata la Shoah”.
Il memoir di József Debreczeni, pseudonimo di József Bruner, giornalista e scrittore ungherese scomparso a Belgrado nel 1978, fu il primo testo sulla Shoah ad apparire nell’Est europeo nel 1950 per poi cadere nell’oblio per ragioni politiche.
Ora, grazie alla tenacia del nipote Alexander Bruner, questo testo č stato ripubblicato in 15 lingue con notevole successo di pubblico e critica e puņ finalmente ricevere il giusto riconoscimento quale testimonianza della barbarie nazista. “Leggevo il libro – scrive Bruner nella postfazione – e spesso dovevo fermarmi, sopraffatto dall’impatto emotivo. In quei momenti emergeva una promessa: il mondo deve sapere. Ci sono milioni di storie che non verranno mai raccontate, ma per questa posso fare la differenza”.
Per il lettore che ha gią affrontato la letteratura concentrazionaria con i libri di Elie Wiesel, Nyiszli Miklos, Primo Levi e di altri ebrei sopravvissuti, il libro di Debreczeni č un viaggio inimmaginabile nell’abisso di una umanitą privata della propria dignitą da un costante abbruttimento fisico e psichico che conferma l’orrore dei campi di sterminio gią testimoniato da altri, utilizzando perņ un linguaggio cosģ crudo e feroce da rendere a volte difficile proseguire la lettura per l’intensitą delle immagini evocate e la potenza narrativa della cronaca. Il risultato č uno dei pił duri e potenti atti d’accusa contro il nazismo mai scritti.
Dal campo di internamento di Topolya parte il viaggio infernale di Debreczeni che lo porta nel maggio 1944 ad Auschwitz, poi nel campo di Eule, “uno dei punti pił pittoreschi della Bassa Slesia” e ancora nel lager di Furstenstein fino ad arrivare nel “crematorio freddo” come veniva chiamato l’ospedale del campo di Dornhau e dove finivano i prigionieri troppo deboli per lavorare, gettati nella calce dopo essere morti di malattia e stenti.
In questa discesa all’inferno l’autore registra, da cronista qual era, il progressivo degradarsi della volontą di vivere, le condizioni igieniche e di salute sempre pił precarie a causa della malnutrizione e dei lavori forzati nelle miniere della Bassa Slesia che minano il corpo e lo spirito, la lotta feroce per una sigaretta, per un tozzo di pane, per una zuppa pił densa ma anche la violenza dei Kapo di cui racconta in modo minuzioso la gerarchia dei lager. E ci spiega quello che per quattordici mesi ha sempre osservato “con raggelato e mai dissolto stupore”. “Nei loro campi di sterminio i nazisti si ingegnavano in maniera sistematica a creare tutta una complessa gerarchia tra i reietti…e come compenso per il loro lavoro sporco, gli aguzzini ricevevano – oltre a una zuppa migliore, a vestiti migliori – il potere stesso sulla vita e sulla morte degli altri”.
Debreczeni che non ha mai amato i numeri perché il suo riferimento sono sempre state le “parole” diventa il numero 33031, un ulteriore tentativo di cancellare la dignitą del prigioniero, e si trova a fare i conti con vari Kapos, col bastone, aziendale, di campo che governano la vita degli haftlinge. Poi c’č l’elite del campo formata dai Blockalteste, dal Lageralteste e dallo scritturale del campo, ognuno impegnato ad esercitare il potere con feroci e inspiegabili angherie nei confronti di ebrei come loro, ormai trasformati in larve umane.
Quando alle quattro del mattino i prigionieri/schiavi vengono svegliati dal suono furioso di una sbarra di ferro e ancora storditi emergono dai loro luridi giacigli di trucioli umidi e pervasi da colonie di pidocchi sono consapevoli che mancare all’appello sotto la pioggia o la neve, restando in piedi per ore “č un crimine gravissimo, punito non di rado con la morte”. E qui l’autore si lascia andare a una considerazione terribile: “La certezza di un’altra lunga giornata piena di torture e di pericoli, di fame e di frustate, di sporcizia e di pidocchi, ci riempie ogni volta la mente con l’angosciante desiderio della fine”.
Dopo la liberazione del lager di Dornhau da parte dei russi nel maggio 1945 Debreczeni ha collaborato con i media ungheresi nella regione jugoslava della Voivodina e con alcuni dei principali giornali di Belgrado; le opere letterarie scritte dopo la guerra hanno restituito voce a quei drammatici eventi storici.
“Con un intuito amaro e lucido – spiega il nipote nella postfazione – capģ che i colpevoli avrebbero cercato di celarsi dietro nuove “uniformi” e che, dopo l’indignazione iniziale del mondo seguita alla guerra, si sarebbe tentato di negare la specificitą e l’enormitą del genocidio contro il popolo ebraico”.
Una visione quanto mai profetica, soprattutto pensando alla violenta ondata di antisemitismo che ha investito l’Italia e l’Europa dopo il pogrom del 7 ottobre 2023 di Hamas contro Israele e in cui si assiste a una nuova caccia all’ebreo di funesta memoria.
Quest’opera letteraria, riportata alla luce dopo oltre 70 anni, che si colloca a pieno titolo fra le opere maggiori sulla Shoah č un documento di eccezionale valore storico da proporre ai giovani per contrastare in modo efficace il revisionismo e il negazionismo che rischiano, mai come oggi, di ridimensionare o banalizzare ciņ che č accaduto nei campi di sterminio.
Un libro da leggere per non dimenticare che “la memoria č importante per costruire una collettivitą, una societą migliore, soprattutto in un periodo come questo in cui si rischia di cancellarla questa memoria, sotto l’onda emotiva di una guerra orribile”. (E.F.)
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Giorgia Greco