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La Repubblica Rassegna Stampa
02.02.2025 Il dramma dei Curdi costretti alla fuga dalle milizie turche
Analisi di Floriana Bulfon

Testata: La Repubblica
Data: 02 febbraio 2025
Pagina: 3
Autore: Floriana Bulfon
Titolo: «Il dramma dei Curdi costretti alla fuga dalle milizie turche»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 02/02/2025, a pag. 3 dell'inserto Longform, con il titolo "Il dramma dei Curdi costretti alla fuga dalle milizie turche", l'analisi di Floriana Bulfon.

Floriana Bulfon
I curdi sono soli contro i turchi, soprattutto da quando la Siria è finita nelle mani degli jihadisti. Ora sono braccati dalle milizie filo-turche e ignorati dall'Occidente e da quasi tutte le testate italiane!

Sulla bara di Karam le amiche hanno deposto un bouquet nuziale: «Si doveva sposare la prossima settimana», dicono in lacrime mentre le danno l’ultimo saluto. Karam Ahmed Shahab è stata uccisa da un drone turco assieme ad altre due persone: li hanno colpiti lungo la strada che stavano percorrendo per raggiungere la marcia di protesta contro gli attacchi sulla diga di Tishreen. Nel “Cimitero dei Martiri” alle porte di Raqqa la foto di questa ragazza si aggiunge ai ritratti di centinaia di militari e volontari curdi caduti in oltre un decennio di battaglie per difendere l’autonomia del Rojava.

Il crollo del regime siriano ora mette in pericolo la sopravvivenza del laboratorio di democrazia dal basso, costruito nel nordest del Paese. Il futuro di questo popolo è in mani lontane, perché dipende dall’evoluzione dei rapporti tra Ankara, Washington e Damasco. «Quando è stata abbattuta la dittatura siamo scesi tutti in piazza per festeggiare – spiega il co-sindaco di Raqqa, Hussein Othman -. Adesso dobbiamo pensare a una nuova Siria democratica, non centralizzata e che riconosca una piena parità alle donne come avviene qui nel Rojava. Per questo, dopo l’8 dicembre abbiamo subito preso contatto con i leader di Hts, manifestando la nostra disponibilità a collaborare per cambiare insieme il Paese». Il governo insediato a Damasco e le autorità curde sembrano fare di tutto per evitare scontri. Tra loro presto dovrebbero iniziare i negoziati: gli ostacoli principali sono l’ordine di sciogliere ogni milizia decretato dal nuovo governo siriano e il rapporto con la Turchia. Nonostante il debito verso Erdogan, che ha equipaggiato le sue truppe, finora il neopresidente siriano Ahmad al Sharaa non ha ceduto alle pressioni per andare contro i curdi: pare prendere tempo, forse per consolidare il suo potere.

All’indomani della caduta di Assad, le milizie siriane manovrate da Ankara, leSyrian National Army (Sna), invece sono andate subito all’assalto di Manbji e tengono sotto tiro Kobane, la città simbolo dove dieci anni esatti fa iniziò la riscossa contro l’Isis. Nei giorni di Natale sembrava che Erdogan stesse per lanciare un’offensiva, poi si è limitato a scatenare le falangi degli alleati siriani e i droni.

Nessuno potrà però invadere il Rojava senza il via libera di Donald Trump: sono statunitensi i soldati, gli aerei e le sovvenzioni che permettono l’esistenza di questa regione. «L’America dice sempre che è con noi e Trump ora deve dimostrarlo - rimarca il co-sindaco di Raqqa, Othman -. Questa città è stata liberata grazie alla sua presidenza: gli Usa, la Francia, le altre nazioni europee devono avviare un dialogo con la Turchia per farle capire che non siamo una minaccia». Parecchi politici locali invocano soluzioni diplomatiche per evitare una guerra totale. Ilham Ahmed, co-presidente degli Affari esteri dell’amministrazione curda, si aggrappa all’idea del presidente Macron di mandare una missione di peacekeeping: «Gli Stati Uniti e la Francia potrebbero mettere in sicurezza l’intero confine, in modo da proteggere la regione e pacificare le nostre relazioni con la Turchia». Al momento però i rapporti con Ankara sono di fuoco.

Ad Amuda, una cittadina quasi sul confine, incontriamo Rhias. Ha 35 anni e per la seconda volta è fuggito, abbandonando tutto: nel 2018 è scappato da Afrin all’arrivo delle milizie filoturche; adesso lo stesso dramma si è ripetuto a Manbji. Ieri ha aperto Facebook e ha trovato le foto di casa sua. Le ha postate un miliziano della Syrian National Army: «Imbraccia il fucile seduto nel mio soggiorno e fuma lashisha sdraiato sul mio divano», dice Rhias mostrando le immagini, impassibile nel suo dolore: «Noi curdi siamo ospitali, non ci verrebbe mai in mente di impadronirci della casa di altri…».

Cosa significa vivere in fuga lo raccontano tre generazioni di donne - Warde, 50 anni, la nuora Doha di 22 e la nipote Nasid di 15 - strette l’una all’altra: la loro casa ora sono due materassi pieni di bambini, gettati sul pavimento di una scuola semidiroccata a Raqqa. Parla per prima Warde, la matriarca: «Noi siamo della zona di Afrin. Nel 2018 le milizie affiliate alla Turchia sono entrate nel villaggio e hanno distrutto le nostre abitazioni. Un mese fa siamo scappate ancora dai bombardamenti. Non riusciamo a dormire: ogni volta che sentiamo un rumore, tremiamo perché pensiamo stia arrivando un attacco…». La nuora Doha si mette a piangere: «Viviamo nell’angoscia, abbiamo sopportato di tutto». Le interrompe Nasid con l’energia e i desideri dell’adolescenza: «Voglio i miei amici, voglio studiare e diventare una dottoressa. Qui non vado a scuola, non ho più niente ». «Dallo scorso dicembre circa centomila persone sono fuggite verso l’area a maggioranza curda e quasi la metà sono minori», calcola Murad Sido, responsabile dell’ong italiana “Un Ponte Per” che da oltre dieci anni offre assistenza medica in questa regione: «È necessario che la comunità internazionale prenda urgentemente posizione: non capisco perché il mondo resti in silenzio».

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