Israele non ha alternative: Hamas deve essere annientata Commento di Bernard-Henri Lévy
Testata: La Stampa Data: 02 febbraio 2025 Pagina: 15 Autore: Bernard-Henri Lévy Titolo: «Israele non ha alternative deve annientare Hamas»
Riprendiamo da LA STAMPA di oggi, 02/02/2025, a pag. 15, l'analisi dal titolo "Israele non ha alternative deve annientare i jihadisti" di Bernard-Henri Lévy.
Bernard-Henri Lévy
Ostaggi liberati a Gaza: Hamas ne approfitta per imbastire lo show della sua vittoria. Per gli ebrei la vita non ha prezzo. I terroristi jihadisti lo sanno e per questo alzano il prezzo a dismisura. Questo fa capire perché la guerra non possa finire con un compromesso: o Israele distrugge gli jihadisti definitivamente, o sarà distrutta.
La vita, in Israele, non ha decisamente prezzo. È vero, qua e là si sono udite voci leggermente discordanti. Alcuni ministri o ex ministri di estrema destra hanno fatto notare che il rilascio di quattro ostaggi ebrei in cambio di duecento palestinesi colpevoli di crimini di sangue è avvenuto a caro prezzo. Perlopiù, però, erano tutti d’accordo. Dalle famiglie devotamente riunite ogni sabato sera da quindici mesi a questa parte, in piazza degli Ostaggi, a un primo ministro che si diceva essere cinico e indifferente, non ci sono state voci fuori dal coro. Il popolo ebraico resta il popolo per il quale non rispettare Pidion shevuim – l’obbligo di recuperare i prigionieri – equivale a violare “i sette comandamenti della Torah”. Il popolo ebraico resta l’eccezione che, al contrario degli imperi che conoscono soltanto i grandi numeri, dice e ripete: «L’unico grande e vero numero, l’unico numero, il solo che conta, è l’Uno nell’uomo, l’Uno dell’uomo e l’Uno di ogni vita salvata che vale, diceva Maimonide, tutti gli shabbat del mondo». Io non conosco nessuno, a Tel Aviv e Gerusalemme, che abbia visto Karina, Daniella, Naama e Liri ritrovare, vive, le famiglie che le aspettavano e che non si sia profondamente emozionato; nessuno che non abbia pensato: «Queste quattro giovani donne, a differenza di altre di cui si attendono i corpi, sono sopravvissute a una detenzione atroce. Tuttavia, se la sopravvvenza è la forma più umile della vita, quella che ci mantiene poco al di sopra della disperazione e della morte, essa è – quando si tratta di quella di un ostaggio che resiste, indomito, alle umiliazioni e alle torture – altresì la forma più nobile della vita, quella che si eleva sopra di noi come un segreto ancora più grande di quello dell’infelicità». C’è anche l’altra immagine, quella che ha preceduto l’attimo, meraviglioso, della riunificazione. Mi riferisco all’immagine del piccolo palco sul quale le quattro giovani donne sono state costrette a salire e dove le abbiamo viste ostentare un sorriso forzato, salutare chissà chi (la folla palestinese appollaiata, di fronte a loro, sulle macerie dove si erano realizzate delle gradinate? I carcerieri? Le loro famiglie, là in fondo, molto vicine e al contempo assai lontane, dall’altra parte dello specchio?), tenendo in mano, sul braccio, uno strano sacchetto di carta marrone contenente – e non è uno scherzo! – provviste per il viaggio, dolciumi, una carta geografica della Palestina o, come se si trattasse di merci, una bolla di riconsegna alla Croce Rossa che fino alla fine si è comportata indegnamente. Questa seconda immagine è stata agghiacciante. A causa dei sorrisi infantili delle soldatesse pietrificate alla prospettiva di dover vivere quegli ultimi istanti, così prossimi alla fine e tuttavia interminabili, eterni, quando poteva accadere ancora di tutto. A causa degli uomini vestiti di nero e incappucciati che le accerchiavano, alcuni quasi incollati loro addosso con i loro sguardi da pesci morti, alcuni di spalle, in uniformi spaiate, nell’atto di filmarsi con il telefono o di mostrare con le dita la “V” di vittoria. E infine a causa di quello che la scena voleva comunicare e di fatto ha comunicato alle masse che, da Jabalya a Rafah, ma anche aldilà di Gaza da Gerico a Ramallah o dal Cairo ad Amman, seguivano in diretta e da allora se la rispediscono come si fa con un’immagine sacra: un esercito sanguinario colpito ma non affondato, indebolito ma non vinto, un esercito che restituirà in più casi soltanto i resti dei prigionieri, ma che nondimeno continua ad avere il potere di tenere alta la pressione in Israele. Questa idea è intollerabile. Ed è giunto il momento – ora o mai più, a fronte del “pusillanime sollievo” che troppo spesso si accompagna alla gioia immensa e bella di veder ritornare i primi ostaggi – di tenere bene a mente che in questa guerra Israele ha sempre avuto due obiettivi. Gli ostaggi (il ritorno dei quali – si noterà, en passant – è possibile soltanto grazie alla pressione militare di Israele; perché mai, in caso contrario, privarsi di quell’ulteriore scudo umano costituito da 485 giorni a questa parte da prigionieri tenuti sequestrati nei tunnel?). Ma anche l’annientamento, senza remore e senza pietà, degli ultimi squadroni pogromisti (come potrebbero, se ciò non fosse, non uscire da questo disastro da resistenti ammantati di nero, facendo tornare a sognare le anime tentate, in Israele e altrove, dalla jihad?). Giacché non è vero che si tratta di una tentazione irresistibile. E non è neppure vero che mettere a tacere il portatore di un’idea abbia sempre e soltanto l’effetto di far nascere una nuova vocazione, pronta a subentrare. Al-Qaeda non è stata fermata nel suo slancio dopo la sconfitta del novembre 2001, tra Tora Bora e Kabul? Lo Stato Islamico non è stato forse bloccato nella sua espansione dopo che una coalizione di nazioni libere, da Mosul a Raqqa, ne ha distrutto il califfato? Ebbene, lo stesso vale per Gaza. Niente sarebbe più pericoloso che lasciarsi dietro, come diceva Machiavelli, un principe ferito ma risparmiato.
Finché Hamas manterrà anche solo una frazione minima della sua capacità di colpire e perfino governare, io non auspico né un “cessate-il-fuoco duraturo” né “una pace di compromesso” né una “soluzione politica” con essa. Ne va della sopravvivenza dei due popoli – l’israeliano, certo, ma anche il palestinese. Hamas deve essere annientata. Israele, che non l’ha voluta, deve vincere questa guerra.
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