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Newsletter di Giulio Meotti Rassegna Stampa
16.12.2024 'Fa schifo'. E' invece il più famoso quotidiano del mondo: New York Times
Newsletter di Giulio Meotti

Testata: Newsletter di Giulio Meotti
Data: 16 dicembre 2024
Pagina: 1
Autore: Giulio Meotti
Titolo: «New York Times: fa schifo il più famoso quotidiano del mondo»

Riprendiamo il commento di Giulio Meotti, dalla sua newsletter, dal titolo: "'Fate schifo'. E il politicamente corretto ha bruciato il giornalismo".


Giulio Meotti

New York Times, faceva già schifo dai tempi di Stalin! Continua ossessionato dalle mode progressiste, dal gender, dalla teoria critica della razza, dopo il 7 ottobre si è trasformato nell'ufficio stampa di Hamas, anche secondo la sua ex editorialista Bari Weiss. Ma i media italiani non lo scrivono!

Il più celebre quotidiano statunitense (e del mondo) parla della pallavolo universitaria femminile, dopo che diverse squadre hanno perso contro la San Jose State University e la giocatrice transgender Blaire Fleming. Nell’articolo in questione, il New York Times utilizza il termine “donne non transgender” per riferirsi alle donne biologiche. Durissima Martina Navratilova, la leggenda del tennis e una delle atlete gay più famose al mondo: “New York Times, fai schifo. Siamo donne, non donne non transgender”. You stink!

Anche J.K. Rowling accusa il grande giornale americano di “riscrivere la storia”. Ma il New York Times aveva già deciso che le donne non sono più “donne”, ma “mestruatrici”.

A proposito della rivoluzione, per dirla con Stalin, beniamino di uno dei più famosi giornalisti del New York Times, “non puoi fare una frittata senza rompere qualche uova”. E senza torturare qualche parola.

Quando tutto è razzismo, anche l’“insalata dell’imperatore asiatico” è razzista. Il New York Times non si lancia in un dibattito gastronomico, ma in una predica sull’intolleranza razziale. “Il razzismo dell’insalata asiatica deriva dall’idea dell’esotico”.

E così si passa a fare a fettine i colleghi anziani del giornale.

Donald McNeil è un famoso reporter del New York Times, per cui ha lavorato 45 anni ed era stato nominato per il Pulitzer per i suoi articoli sulla pandemia. McNeil ha guidato un gruppo di studenti delle scuole superiori in un viaggio affiliato al Times in Perù. Alcuni studenti e genitori si sono lamentati del fatto che McNeil, che è bianco, aveva usato la parola “negro” per raccontare una storia e che aveva rifiutato l'idea che ci fosse il “privilegio bianco”. A McNeil “è stato chiesto a cena da uno studente se pensava che una sua compagna di classe avrebbe dovuto essere sospesa per un video che aveva fatto a dodici anni in cui usava un insulto razziale. Per capire cosa c'era nel video, McNeil ha usato l'insulto stesso”. Dunque, il giornalista non voleva chiamare usare “negro” per offendere, ma per capire in quale contesto la parola fosse stata usata. Tanto basta per essere licenziato.

Così, per dirla con The Economist, “il New York Times ha perso la sua strada”.

Per capire come l’abbia persa c’è prima di tutto c’è un problema di lauree. Praticamente tutti i dipendenti del New York Times vengono dalle università più elitarie d’America. Nessuno viene da università pubblica o remote del paese. Uno studio del NiemanLab rivela che “degli otto college più comuni tra i dipendenti, sei sono scuole dell’Ivy League (in ordine decrescente, Yale, Columbia, Harvard, Brown, Cornell e Princeton. Le due non Ivy sono Northwestern e Berkeley)”. Lauree lautamente pagate, in ambienti ideologicamente conformisti e lontani dalla realtà americana vissuta. L’editore del giornale, A.G. Sulzberger, lo sa molto bene e ha scritto che i giornalisti non dovrebbero vivere in una “bolla”.

E non dovrebbero anteporre la propria ideologia alla realtà. Lo sa molto bene l’ex direttrice del New York Times, la potentissima Jill Abramson, che ha rimproverato i media per non aver riferito che Joe Biden era cognitivamente compromesso prima che fosse evidente a tutto il mondo, anche ai giornalisti che notoriamente passano il tempo a coprire le tracce di quello che ritengono sconveniente. “La Casa Bianca di Biden è chiaramente riuscita a nascondere in modo massiccio il grado di debolezza del presidente e il suo grave declino fisico, che potrebbe essere semplicemente il risultato della vecchiaia”, ha detto Abramson. “Vergogna per la stampa della Casa Bianca per non aver squarciato il velo di segretezza che circonda il presidente”. E poi ha lasciato uscire la verità senza apparentemente rendersi conto di quanto fosse grande la sua ammissione: “Temo che troppi giornalisti non abbiano cercato di raccontare la storia perché non volevano essere accusati di aver contribuito all'elezione di Donald Trump”.

A tre anni dal suo licenziamento dal New York Times, James Bennet – l’ex direttore della pagina degli editoriali che si è dovuto dimettere dal giornale dopo aver pubblicato un editoriale del senatore repubblicano Tom Cotton contro Black Lives Matter – in un lungo saggio spaventoso pubblicato su The Economist accusa gli alti dirigenti editoriali del Times di aver creato una cultura di “illiberalismo” che ha messo a tacere il dibattito e soddisfa i “capricci ideologici dei membri più di sinistra” dello staff del giornale. “La realtà è che il Times sta diventando la pubblicazione attraverso la quale l’élite progressista americana parla a se stessa di un’America che in realtà non esiste” scrive Bennet, che ha perso il lavoro per aver ospitato l'editoriale di Cotton, che ha invitato a utilizzare l’esercito per reprimere le proteste violente e i saccheggi durante il Black Lives Matter. "Sulzberger (membro della famiglia che da oltre 120 anni controlla il New York Times) mi chiamò a casa e, con una rabbia gelida che ancora mi sconcerta e mi rattrista, chiese le mie dimissioni", racconta Bennet. Scese in campo il sindacato giornalisti con un’accusa infame: per il solo fatto di aver pubblicato quell’articolo, Bennet metteva in pericolo l’incolumità dei suoi colleghi afroamericani.

Quando il New York Times ha smesso di essere un giornale per diventare una gazzetta ideologica lo ha spiegato un’altra reporter che ha lasciato il New York Times, Nellie Bowles: “È passato un po’ di tempo ormai e potrebbe essere difficile ricordare che sia mai stato diverso, ma ricordate la pandemia e la rabbia. Ricordate molti di noi isolati, sui nostri telefoni, sui nostri computer, il mercato azionario stranamente in rialzo mentre il governo inviava denaro in massa nel paese. Ricordate che durante tutto questo, c’è stato un omicidio. La morte è stata filmata. È diventata virale. E all’ombra di quella pandemia e di quell’omicidio e di quei soldi, la politica americana è impazzita. L’intellighenzia liberal, in particolare, è diventata selvaggia, selvaggia di rabbia e ottimismo, e nuove idee dal mondo accademico hanno iniziato a rimodellare ogni parte della società. L'ideologia che è arrivata strillando avrebbe continuato a rimodellare l'America in alcuni modi interessanti e persino buoni, e in altri modi spaventosi, ma soprattutto in modi che sono, odio dirlo, divertenti. Era una nuova era. C’era il Nuovo Progressista. Arrivarono con una politica basata sull'idea che le persone sono profondamente buone, snaturate solo dal capitalismo, dal colonialismo, dalla bianchezza e dall'eteronormatività. Era una filosofia inebriante e meravigliosa. A quei tempi ero una giovane reporter di successo al New York Times, una Nuovo Progressista che faceva l'unico lavoro che avesse mai desiderato. Donald J. Trump era il presidente quando mi sono unita. Gli abbonamenti stavano aumentando e gli abbonati volevano qualcosa di specifico per i loro soldi: il Times sarebbe stato il cuore della resistenza. Il mio lavoro veniva citato in tutte le riunioni aziendali. Scrivevo grandi storie. Andavo in ufficio la domenica e non perdevo mai un happy hour. La maggior parte della nuova guardia era arrivata lì per quella rivoluzione. Entravano nell'edificio con una missione. Non erano lì per raccontare fatti di cronaca secca, ma per impugnare la penna per la giustizia. Era una visione più bella del ruolo del giornalismo per un periodo così bello, più avvincente per lo scrittore e per il lettore. Ripensandoci ora, un po’ mortificati, i dirigenti del giornale ammettono che forse gli è sfuggito di mano. Le persone vogliono che i loro pregiudizi siano confermati. Vogliono essere avvolte da chi dice che hanno sempre avuto ragione”.

Basta questo studio che dimostra l’ossessione del New York Times per la “bianchezza”, la “diversità” e la “giustizia sociale”.

Alla fine degli anni Ottanta, William Safire, speechwriter di Richard Nixon, venne avvicinato dall’editore del New York Times, Arthur Sulzberger, che gli propose di scrivere un paio di editoriali alla settimana. Safire accettò e la reazione dei colleghi fu rabbiosa. Max Frankel, futuro direttore del giornale, disse: “Mi venne un colpo”. I reporter spettegolavano: “Ci tocca avere un uomo di Nixon in redazione”.

Oggi non c’è più praticamente un solo giornalista contrarian nel giornale dei record.

Adam Rubenstein sull’Atlantic se ne è andato con l’articolo “Ero un eretico al New York Times”, in cui ricorda gli editoriali del Times firmati da Moammar Gheddafi, Recep Tayyip Erdogan e Vladimir Putin che non hanno prodotto alcuna polemica interna alla redazione. “L’anno scorso abbiamo pubblicato un articolo del sindaco di Gaza City nominato da Hamas e pochi sembravano preoccuparsene. Hanno pubblicato la difesa del portavoce del Partito comunista cinese, Regina Ip, della repressione omicida della Cina sulle proteste a favore della democrazia a Hong Kong e un articolo di un leader dei Talebani, Sirajuddin Haqqani (nella cui casa è stato ucciso il leader di al Qaeda Ayman al-Zawahiri). Nessuno di questi ha suscitato scalpore. Ma se il giornale sia disposto a pubblicare opinioni conservatrici su questioni politiche controverse, come il diritto all’aborto e il Secondo Emendamento, rimane una questione aperta. ‘Lo Stato di Israele mi mette molto a disagio’, mi ha detto una volta un collega. Questo era qualcosa che ero abituato a sentire dai giovani progressisti nei campus universitari, ma non al lavoro”.

Dopo il pogrom del 7 ottobre di Hamas, con il massacro di 1.200 civili e il rapimento di oltre 200 israeliani, al New York Times devono aver pensato: chi abbiamo a Gaza per coprire la guerra? Ma sì, quel reporter palestinese che avevamo licenziato perché fan di Adolf Hitler. Bene, riassumiamolo! A seguire per il New York Times il conflitto tra Hamas e Israele è tornato Soliman Hijjy, che ha elogiato Hitler in un post su Facebook: “Quanto sei grande, Hitler”, condividendo un meme del Führer che si fa un selfie.

Bari Weiss accusa il suo ex giornale di essere “l’ufficio pubbliche relazioni di Hamas”. Weiss è un’altra che ha lasciato il giornale con una lettera che ha fatto furore e in cui scrive: “L’autocensura è diventata la norma. Le regole residue al New York Times vengono applicate con estrema selettività. Se l’ideologia di una persona è in linea con la nuova ortodossia, quella persona e il suo lavoro non subiranno verifiche. Tutti gli altri vivranno nel terrore del Thunderdome digitale. L’odio online è tollerato fintantoché colpisce gli obiettivi giusti”.

Quando il professor Samuel Paty venne decapitato davanti alla sua scuola media in Francia da un islamista, il New York Times non trovò di meglio che titolare così: “La polizia francese spara e uccide un uomo dopo un attacco mortale col coltello”. Nel gennaio 2015, il New York Times ha censurato la copertina di Charlie Hebdo, il Maometto in lacrime con in mano il cartello “Je Suis Charlie”. Una decisione giustificata dal direttore, Dean Baquet, secondo cui “le immagini del Profeta offendono i musulmani”.

Nikole Hannah-Jones del New York Times ha affermato che Cuba è “il paese più equo e multirazziale del nostro emisfero è Cuba”. “Cuba ha la minima disuguaglianza tra bianchi e neri di qualsiasi altro posto e questo è in gran parte dovuto al socialismo”.

Il New York Times settimana si domanda: “La musicologia è razzista"?”. Speriamo non quanto Firenze, razzista fino al midollo secondo il NYT. E comunque non più dell’insalata.

Il New York Times ha istituzionalizzato 1984 di Orwell, stabilendo che la parola “black” vuole la maiuscola, mentre per i bianchi rimarrà il minuscolo. Sul New York Times ci si domanda se l’estinzione del genere umano, in fondo, non sia poi tutta questa tragedia visto il beneficio che potrebbe apportare al clima.

Basta leggere chi se ne è andato (Bowles, Weiss, Rubenstein, Mcneil e Bennet, i primi tre ebrei) per capire come il progressismo abbia distrutto i media tradizionali. E comunque c’è sempre la vecchia storia del Premio Pulitzer Walter Duranty, il corrispondente da Mosca del New York Times sotto Stalin, che essendo comunista nascose deliberatamente la vessazione e lo sterminio di milioni di contadini ucraini per opera di Stalin. Le chiamava, nelle sue corrispondenze, “esagerazioni o malevola propaganda” o, anche, “pure assurdità”. “Per più di 20 anni, il Pulitzer Prize Board e il New York Times hanno taciuto le suppliche degli ucraini di correggere un torto inconcepibile, assegnando il prestigioso premio per il giornalismo a un uomo che ha consapevolmente contribuito alla fame di milioni di ucraini”, dice il Comitato statunitense per l'Holodomor, il genocidio ucraino per fame da parte di Stalin. Quegli articoli guadagnarono a Duranty un Pulitzer “per l’imparzialità del suo giornalismo” e la gratitudine di Stalin, che gli disse, nell’ultima intervista: “Lei ha fatto davvero un buon lavoro qui”.

Lo scandalo non si è fermato a Duranty. Anche un altro maestro del giornalismo progressista al New York Times, Izzy Stone, è venuto fuori che era una spia sovietica, un marxista che definì Stalin “uno dei giganti della nostra epoca”, che di Fidel Castro ammirava “la purezza rivoluzionaria” e che si schierò con i terroristi palestinesi.

Ha ragione Elon Musk: “Il New Woke Times è pura propaganda”. Non c’è più il comunismo, ma come ha scritto il filosofo francese Alain Finkielkraut, “l’antirazzismo militante è per il XXI secolo ciò che il comunismo è stato per il XX secolo”. Il nuovo comunismo della classe dominante che se ha mentito sulle donne, può mentire su tutto il resto.

You stink!

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