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Libero Rassegna Stampa
13.12.2024 L’economia di Israele corre, e molto
Analisi di Amedeo Ardenza

Testata: Libero
Data: 13 dicembre 2024
Pagina: 16
Autore: Amedeo Ardenza
Titolo: «L'economia di Israele ha ricominciato a correre»

Riprendiamo da LIBERO di oggi, 13/12/2024, a pag. 16, con il titolo "L'economia di Israele ha ricominciato a correre", l'analisi di Amedeo Ardenza.

Nonostante la guerra e nonostante le stime al ribasso delle agenzie di rating principali, l'economia israeliana, secondo il Financial Times, ha ripreso a crescere, e molto

Un paese con il deficit in crescita, con le imprese in ginocchio private come sono di decine di migliaia lavoratori richiamati al fronte; e ancora decine di migliaia di persone sfollate verso il centro dal nord e dal sud, ossia dalle regioni agricole. Senza dimenticare il turismo ridotto al lumicino. O le agenzie di rating che una dietro l’altra hanno abbassato le loro valutazioni. Fino al taglio delle previsioni di crescita da parte della stessa Banca centrale d’Israele, che a ottobre ha indicato la crescita del Pil a +0,5% quest’anno e +3,8% nel 2025 contro il +1,5% e il +4,2% previsti a luglio. Secondo parte della stampa, il futuro economico dello Stato ebraico è, insomma, segnato.
Eppure, c’è anche chi la pensa diversamente. Sulla base di dati Ocse (l’organizzazione che riunisce le 38 più forti economie del globo, alla quale Israele si è unito nel 2010) e del Fondo Monetario internazionale, il Financial Times ha stilato una classifica delle economie più performanti all’interno del gruppo. I criteri utilizzati sono oggettivi: Pil; andamento del mercato azionario; inflazione di fondo; disoccupazione; deficit pubblico. Ebbene, se la Spagna è arrivata prima e l’Italia quinta, Israele si è piazzato al settimo posto.
Non male per un Paese che non solo sostiene spese militari decisamente sopra la media (il 5% del Pil nel 2021, il 4,5% nel 2022 e il 5,3% nel 2023) ma che si è letteralmente dissanguato nell’affrontare la guerra su più fronti scoppiata il 7 ottobre 2023.
Basti pensare che un singolo missile antimissile Tamir del livello più “basso” di difesa aerea (l’Iron Dome) costa 50 mila dollari mentre un proiettile della Fionda di Davide (pensata per intercettare missili balistici a medio e lungo raggio) di dollari ne costa un milione. E poi ci sono, appunto, i costi sociali, le centinaia di militari caduti, i posti di lavoro distrutti dalla guerra. Pane per i denti dei gufi antisionisti.
«L’economia israeliana è fondamentalmente forte: veniamo da decenni di crescita e di sviluppo tecnologico, e poi il paese è pervaso da un forte spirito imprenditoriale. Ed è sempre sorprendente vedere con quale velocità ci sap Omer Moav piamo riprendere dai traumi: è già successo dal giorno dopo la fine delle restrizioni ai movimenti e all’interazione sociale con la fine della pandemia». Omer Moav non ha dubbi. Professore di Economia alla Reichman University di Herzliya (a nord di Tel Aviv) e alla University of Warwick (a est di Birmingham), Moav ricorda come quattro anni fa l’allora governo di Benjamin Netanyahu adottò un pacchetto di misure per stimolare l’economia durante il Covid. «Alcune del tutto necessarie, altre, come un sussidio di disoccupazione senza fine, nocive». Nel momento in cui il governo Bennet-Lapid mise fine a questo sussidio, tanti giovani tornarono a lavorare e l’economia si riprese in fretta. Un esempio del passato per affermare con convinzione che, finita la guerra, ci sarà un rimbalzo. E se è vero che il turismo è fermo, «è anche vero che come tutte le economie avanzate noi viviamo di commerci e di servizi, non di turismo né di agricoltura». Con realismo il professore ammette che la guerra non è ancora finita, e che tanti sfollati non sono ancora rientrati alle proprie vite. Allo stesso tempo osserva che il confine nord è quasi pacificato e che l’intensità della guerra contro Hamas e Gaza si è molto ridotta. Di conseguenza la crescita (prevista dalla legge di bilancio) del deficit al 6,6% del Pil nel 2024 non lo impensierisce.

CERVELLI IN FUGA

Sul breve termine Moav non vede nessun problema.
A preoccuparlo, invece, sono le prospettive di periodo medio e lungo. Autore nel 2016 di uno studio sul brain drain, la fuga di cervelli, l’accademico osserva che il flusso di persone che lasciano Israele per trasferirsi all’estero non accenna a diminuire ed è per inciso superiore a quelli dei tanti ebrei del mondo che fanno l’aliyah (la “salita”) e si trasferiscono nello Stato ebraico. Il problema, sottolinea, non è demografico ma qualitativo. A emigrare sarebbero le persone con il più alto titolo di studio e capacità imprenditoriale, «un campione non rappresentativo del paese: se il flusso non si interromperà la forza della nostra economia è destinata a scemare».


lettere@liberoquotidiano.it

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