La verità che fa paura trasformata in una fake news Newsletter di Giulio Meotti
Testata: Newsletter di Giulio Meotti Data: 31 ottobre 2024 Pagina: 1 Autore: Giulio Meotti Titolo: «La verità che fa paura trasformata in una fake news»
Riprendiamo il commento di Giulio Meotti, dalla sua newsletter, dal titolo: "La verità che fa paura trasformata in una fake news".
Giulio Meotti
Qualche giorno fa mi è ricapitato tra le mani il saggio di un grande dissidente sovietico dimenticato che nacque in una cittadina degli Urali nel 1941, emigrò nel 1978 a New York e lì morì nel 1990. Scrisse libri magnifici e ironici (ora purtroppo introvabili nell’editoria italiana conformista) sulla vita al tempo del compagno segretario Breznev e poi sotto il politicamente corretto occidentale.
L’autore è Sergej Dovlatov, figlio di padre ebreo russo e di madre armena, e il libro si intitola La marcia dei solitari, pubblicato anni fa da Sellerio e introvabile. Leggo:
“Criticare Andropov da Brooklyn è facile. Provate a criticare il direttore della ‘Nuova Parola Russa’ e vi faranno vedere i sorci verdi…Perché il totalitarismo siete voi. Il totalitarismo è la censura, l’assenza di informazione, il monopolio del mercato, le direttive, le risoluzioni, gli imperativi. Il totalitarismo è l’asservimento ai superiori, la sudditanza e il servilismo. Il totalitarismo siete voi. Voi e i vostri complici, i galoppini, i giannizzeri, gli innumerevoli giornalisti compiacenti, la cui mancanza di talento viene abbondantemente compensata dall’ubbidienza”.
In un altro suo libro, Compromesso, Dovlatov risponde a una domanda che ci siamo posti infinite volte: come poterono tirare avanti sotto una dittatura comunista i giornalisti privi di qualsiasi illusione circa il partito, i suoi slogan, le sue “direttive”, e tuttavia incapaci di contestazioni? Compromesso è costruito cosi: viene prima, in corsivo, la notiziola com’è apparsa sul giornale sovietico. Segue il buffo racconto di ciò che è veramente successo. Una serie appunto di compromessi tra verità e impossibilità di scriverla. Censura e nomenclatura, gente che sogna un permesso di viaggio nella Germania Est, scarpe ungheresi, un bilocale in periferia e vodka e vino in quantità.
Ma veniamo a oggi.
Riportate la mente a luglio, anche se sembra tanto tempo fa, quando un giovane “gallese” di nome Axel Rudakubana ha accoltellato a morte tre bambine (Alice Dasilva Aguiar, 9 anni, Elsie Dot Stancombe, 7 anni, e Bebe King, 6 anni) a una scuola di ballo e ferito altre dieci persone nella città di Southport. I testimoni, descrivendo l’evento alla BBC, raccontarono che era “come una scena di un film dell'orrore” con urla e “diversi bambini sanguinanti sulla strada”.
Si sono verificate violente manifestazioni a Southport e in altre parti dell'Inghilterra, degenerate in scontri etnici e religiosi. Quando il nome del giovane originario del Ruanda è stato finalmente reso noto al pubblico, tutti i media e i politici si sono affrettati a rimproverare i “razzisti” e le fake news dei social.
Io non ne ero così sicuro. Un accoltellamento di massa da parte di un giovane di origine africana assomigliava molto alle azioni di un convertito all'Islam. Come Michael Adebolajo, il terrorista convertito che sgozzò il soldato Lee Rigby a Londra. O Michael Dos Santos, il terrorista francese che faceva il catechista cattolico prima di passare all’Isis.
Ma bisognava affidarsi alla versione ufficiale. E la versione ufficiale dice che in Occidente andrebbe tutto alla grande se non fosse per islamofobia, razzismo e fake sui social di Elon Musk.
Ma in un tipico colpo di scena politicamente corretto, la polizia dice anche che i moventi del giovane assassino sono ancora “sconosciuti”. Sì, aveva un manuale di addestramento terroristico islamico. Sì, aveva con sè la ricina per qualche scopo nobile, ma non sono ragioni sufficienti per trarre conclusioni affrettate su quale potesse essere il suo “movente”. Aspettiamo i tempi del tribunale, da cui forse emergerà che aveva sì un veleno e un manuale di Al Qaeda, ma che agiva in preda a un raptus e che non c’è nulla da temere.
Il manuale che aveva il terrorista è intitolato “Studi militari sulla jihad contro i tiranni” e include consigli sulla guerra urbana e il terrorismo insieme a istruzioni su come creare cellule e cosa fare se vengono arrestati.
I giornali italiani a luglio erano come usciti tutti insieme all’unisono, nessuno escluso. Fare domande era proibito.
Corriere della Sera: “Southport, così le fake news hanno scatenato la rabbia della gente dopo la strage di bambine”.
La Repubblica: “La ‘guerra civile’ di Musk, i troll di Russia e Iran e il razzismo: la disinformazione incendia gli scontri in Inghilterra”.
Il Sole 24 Ore: “Attacchi a musulmani a Southport, l'esperto: disinformazione cruciale”.
Il Post: “Le conseguenze delle notizie false sull’accoltellamento a Southport”.
Fanpage: “Cosa succede nel Regno Unito e perché sono scoppiate le rivolte contro la comunità musulmana e gli immigrati, originate dopo che su un terribile caso di cronaca sono state diffuse fake news”.
Wired: “Elon Musk sta gettando benzina sul fuoco delle rivolte nel Regno Unito, alimentando le violenti proteste anti-immigrazione guidate dall'estrema destra con fake news e complottismi vari”.
Huffington Post: “Come la disinformazione di estrema destra ha alimentato una rivolta in Gran Bretagna”.
Potrei continuare a lungo, stessi titoli, stessi articoli. Il giornalismo italiano è morto da tempo.
Così oggi ho cercato un articolo sui giornali italiani che informasse il pubblico che la polizia inglese sapeva da tre mesi che l’assassino era un terrorista o che avevano trovato in casa sua molte tracce di veleni e di jihadismo. Ma niente. Neanche uno. Gli italiani rimarranno fermi alla storia che è stata tutta colpa di Musk, dei social e della disinformazione dei bianchi razzisti.
Perché come ha scritto Alain Finkielkraut, lo stesso concetto di “fake news” è ormai una manipolazione giornalistica. “Non sono le fake news che la stampa vigilantes rintraccia senza sosta, è la selezione delle informazioni da parte della vigilanza stessa. Gli stessi efficienti decostruttori di ‘fake news’ e ‘verità alternative’ praticano il 'no news' per non sollevare la brace”.
L’ansia politicamente corretta può rivelarsi letale. Ricordate il poliziotto che alla Manchester Arena, dove un terrorista uccise numerosi inglesi fra cui bambini, non controllò l’attentatore per paura di essere accusato di “razzismo”? Kyle Lawler quella sera era preoccupato, ha detto, che chiedere a un uomo dalla pelle scura perché si aggirasse per l'arena con un grande zaino potesse essere interpretato come razzista. “Non volevo che la gente pensasse che lo stavo stereotipando a causa della sua razza”, ha detto Lawler.
Il leader conservatore Robert Jenrick ieri ha chiesto al premier Keir Starmer cosa sapeva dell’attacco di Southport. Cresce intanto la pressione politica su Starmer per sapere quando erano arrivati a conoscenza della natura jihadista dell’attacco.
Il governo della Gran Bretagna dhimmi, sconvolta e barcollante, ha nascosto il fatto che l’assassino era un terrorista jihadista, in modo da poter perseguitare la cosiddetta “estrema destra” per aver osato opporsi alle politiche di migrazione di massa?
E se hanno mentito sull’assassinio di tre bambine, cosa impedisce loro di mentire sulle centinaia di “fatti di cronaca” che segnano il scandiscono il calendario della vita delle grandi città europee?
Dopo Southport sono stati effettuati almeno 378 arresti, per lo più per reati contro l'ordine pubblico, ma altrettanti cittadini inglesi sono stati interrogati dalla polizia, e spesso arrestati, per aver pubblicato la cosiddetta “disinformazione” sui social.
I giudici inglesi hanno persino comminato 18 mesi di carcere a un pensionato inglese che ha urlato alla polizia: “Chi cazzo è Allah”.
Il blog politico Guido Fawkes rivela che “venerdì le autorità ci hanno fatto pressione affinché ritirassimo la nostra storia secondo cui l'assassino di bambini alla festa di Taylor Swift a Southport era un aspirante terrorista che scaricava dati da Al Qaeda”.
“Dal momento in cui hanno detto che era ‘nato a Cardiff’, mi sono indignata” scrive Allison Pearson sul Telegraph. “Come osano. Nessun gallese nella storia è mai stato accusato di aver corso come un pazzo con un coltello in un gruppo di bambine a un corso di danza a tema Taylor-Swift. Il massacro di tre innocenti in un villaggio vacanze a Southport non sembrava il tipico crimine britannico. Sembrava alieno ed estremo e pieno di odio orribile e raccapricciante. Molti di noi hanno avuto la sensazione che non ci stessero dando il quadro completo, non è vero? Ci sono buone ragioni per sospettare che il ritardo ufficiale nella divulgazione di informazioni rilevanti abbia alimentato un'atmosfera già febbrile in cui sono cresciute le speculazioni pubbliche e la rabbia per questo crimine efferato, portando infine a rivolte diffuse. La polizia deve sicuramente aver scoperto molto rapidamente quella che sembrava essere ricina a casa di Rudakubana e aver informato il ministro dell'Interno. Perché queste informazioni importanti non sono state rese pubbliche?”.
Pearson scrive che lo schema sui giornali e dei governi è più o meno sempre questo:
“Sopprimere informazioni sull’identità del sospettato.
Criticare le speculazioni pubbliche perfettamente comprensibili e la rabbia sul presunto aggressore.
Negare che l'attacco sia correlato al terrorismo. Negare anche che il presunto aggressore sia mai stato nel mirino dei servizi di sicurezza.
Una volta rivelata l'identità del presunto aggressore, pubblicare una dolce e angelica foto dell'infanzia.
La polizia lancia un severo avvertimento sulla "disinformazione" online.
I commentatori di sinistra di spicco si preoccupano di "disinformazione" e "islamofobia" e non menzionano i nomi delle vittime che vengono rapidamente dimenticate.
I politici evitano conversazioni imbarazzanti sui fallimenti del multiculturalismo, l'immigrazione di massa e la mancanza di integrazione e suggeriscono che la soluzione potrebbe essere una maggiore censura online.
Il pubblico è incoraggiato a partecipare a toccanti manifestazioni di commemorazione pacifica e riconciliazione.
Annullare tutto quanto sopra se l’aggressore risulta essere di estrema destra e bianco. Un enorme sollievo per tutti”.
Ha dimenticato di aggiungerne un altro:
Censurare tutto se poi viene fuori la verità.
Trigger warningè il titolo del libro del giornalista inglese Mike Hume, editorialista del Times. “Oggi le élite politiche e culturali temono le masse come inaffidabili e così vogliono controllare e sterilizzare quello che possono dire, sentire, leggere o anche solo pensare. Una cultura della proibizione verbale ha preso in consegna la società, guidata da un esercito di militanti sedicenti che si considerano i guardiani del pensiero corretto. Invece di un dibattito aperto e di uno scontro di idee sul futuro della società, l’obiettivo è semplicemente quello di evitare le controversie, mantenere le cose tranquille e sorvegliare il linguaggio che le persone utilizzano. Questo porta alla capitolazione della correttezza politica e all’autocensura. Il grande filosofo liberale del XIX secolo John Stuart Mill ha messo in guardia contro ‘la tirannia dell’opinione prevalente’, ma questo è esattamente quello verso cui stiamo scivolando all’inizio del XXI secolo”.
Prendiamo il Guardian, il giornale della sinistra inglese. Oggi la notizia sull’attentatore di Southport è piccola e sotto il monte Fuji rimasto senza neve.
Come al solito è Ayaan Hirsi Ali a porre le domande che contano:
“Il nome Alex Rudakubana non ha un suono musulmano? Davvero? È un convertito? Chi lo ha convertito all'Islam? Quale moschea ha frequentato? Chi altro è coinvolto? Quindi i cittadini britannici arrabbiati, ora rinchiusi, non hanno diffuso informazioni errate, vero? Oppure è islamofobo porre queste domande?”.
Ma, come spiegava Dovlatov, fare queste domande era sconveniente. Abbiamo un problema islamico in Europa? Quale ruolo deve svolgere l’informazione? E i governi ci dicono la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità?
Chi ricorda due anni fa il “kamikaze cristiano”? Era Emad Al Swealmeen, il nome dell’attentatore di Liverpool. “Enzo Almeni”, come si faceva chiamare dagli amici, era un richiedente asilo con padre siriano e madre irachena che aveva cambiato il nome per sembrare “più occidentale”. Si era fintamente convertito al cristianesimo per nascondere identità e motivi. Tutti sapevano che nessun cristiano può farsi saltare in aria dentro una cattedrale. Eppure La Repubblica, questo ridicolo bignami progressista, non ci pensò due volte a sbattere il “kamikaze cristiano” in prima pagina. Come per Southport, vietate le domande che si dovevano fare. Poi venne fuori che l’attentatore era islamico.
La verità fa paura e provano a nasconderla trasformandola in una “fake news”.
Scrive Douglas Murray: “Ora sappiamo perché le autorità del Regno Unito sono rimaste così in silenzio dopo l’uccisione di tre ragazzina a Southport. Sono rimaste in silenzio perché il sospettato aveva manuali di al Qaeda. Lo sapevano. Semplicemente non volevano che il pubblico lo sapesse. Perché pensano che non ci si possa fidare del pubblico”.
Chi ha vinto in questa storia? Come scrive sempre Ayaan Hirsi Ali sullo Spectator, “la diabolica alleanza tra islamisti e persone di sinistra che vogliono usare lo Stato per imporre i loro dogmi a tutti gli altri”.
Dovlatov ci aveva avvertito che non finisce bene una società dove il giornalismo è composto in gran parte da “complici, galoppini, giannizzeri e compiacenti, la cui mancanza di talento viene abbondantemente compensata dall’ubbidienza”.
Ora le autorità, insieme ai loro tirapiedi mediatici, stanno cercando di farla franca ricordandoci che qualsiasi speculazione sulle motivazioni del terrorista sarebbe pregiudizievole per il processo che inizierà a gennaio.
Ieri il capo della polizia inglese ha detto che l’attentatore “ha diritto a un processo equo”. Ci mancherebbe, io sono un super garantista. Ma noi abbiamo non il diritto, ma il dovere, di conoscere la verità. E anche di poter dire “chi cazzo è Allah”, senza rischiare un anno e mezzo di prigione.
Eschilo però diceva che “in guerra la prima vittima è la verità”. E questa, che ci piaccia o meno, che sappiamo darle un nome o meno, che siamo o meno disposti a combatterla (e io ne dubito fortemente), è una guerra.