Ancora una volta, e una volta per tutte: mai più Commento di Daphne Klajman
Testata: israele.net Data: 17 ottobre 2024 Pagina: 1 Autore: Daphne Klajman Titolo: «Ancora una volta, e una volta per tutte: mai più»
Riprendiamo dal sito www.israele.net - diretto da Marco Paganoni - il commento di Daphne Klajman dal titolo "Ancora una volta, e una volta per tutte: mai più".
Dopo la carneficina del 7 ottobre, è essenziale confrontarsi con le realtà di un conflitto che continua a mettere alla prova la nostra concezione di giustizia e coesistenza.
Avremmo potuto avere un Medio Oriente diverso, uno in cui Israele prosperasse pacificamente accanto ai suoi vicini e l’eterno conflitto con i palestinesi fosse solo un lontano ricordo.
Più volte Israele ha teso la mano offrendo pace, coesistenza e un futuro condiviso. Ma a questi gesti si è risposto con la violenza, non con la diplomazia.
Per 76 anni Israele ha cercato di vivere in pace, chiedendo solo che coloro che serbano ostilità e rancore depongano le armi e lascino andare la rabbia che portano con sé da generazioni, una rabbia radicata in una scelta che loro stessi non seppero fare.
Nel 1947, le Nazioni Unite proposero un piano di spartizione che avrebbe creato due stati: uno ebraico e uno arabo, uno accanto all’altro. Mentre i leader ebrei accettarono il piano, desiderosi di assicurarsi una patria dopo millenni di persecuzione, il mondo arabo lo respinse categoricamente. Se i palestinesi avessero accettato il piano di spartizione del 1948, ora starebbero festeggiando 76 anni di indipendenza, proprio come noi.
Invece rimangono una diaspora frammentata, intrappolati dal jihadismo, dalla corruzione e da quel disastro filo-terrorismo che è l’Unrwa. L’autodeterminazione non è un diritto che si esercita senza accettare compromessi con l’eguale diritto degli altri.
È tempo che la leadership palestinese accetti una dura verità: Israele è qui per restare. La sovranità ebraica non verrà cancellata e noi non verremo sacrificati sull’altare della distorta nozione di giustizia storica di qualcun altro. Solo desistendo potranno offrire ai loro cittadini un barlume di pace.
Riflettendo sugli eventi del 7 ottobre, ormai di un anno fa, sono al tempo stesso incoraggiata e sgomenta.
Molti attivisti come me, che da tempo sostengono il sionismo come faro di democrazia, stanno trovando nuovi alleati. Persone che un tempo liquidavano l’idea sionista come obsoleta, forse credendola irrilevante in un mondo post-Shoah, si stanno rendendo conto di quanto si sbagliavano. Il 7 ottobre ha rivelato la virulenza dell’antisemitismo contemporaneo. Non è una reliquia della storia, ma una forza impetuosa camuffata nel linguaggio dei diritti umani e della giustizia sociale.
Uno dei più grandi malintesi nel mondo odierno è l’idea che, per gli ebrei, una patria vada a discapito di altri. Noi non perseguiamo un dominio territoriale assoluto, come dimostra la disponibilità a dividere la terra ogni volta che si è presentata l’opportunità di una soluzione a due stati negli ultimi settant’anni. Quello che chiediamo è il diritto di vivere liberi dal terrore e dalla persecuzione.
Il mondo si comporta come se la nostra sopravvivenza minacciasse la pace globale. Non è così. L’autodeterminazione ebraica minaccia solo coloro che vogliono vederci sradicati.
Questa guerra non ha niente a che fare con la vendetta. La reazione di Israele alle atrocità del 7 ottobre, e all’odio che ha dovuto affrontare fin da prima del 1948, non è guidata da una presunta sete di vendetta. È alimentata dalla necessità di garantire che quegli orrori non accadano mai più.
Di recente, mentre atterravo in Israele su un volo El Al, l’assistente di volo ha annunciato: “Benvenuti in Israele. Ricordiamo di pregare per la sicurezza dei nostri coraggiosi soldati e per riportare a casa tutti i nostri ostaggi”.
Ai miei occhi, anche questo semplice gesto di routine cattura l’essenza del conflitto: una parte è concentrata sulla difesa della propria gente e sull’assicurarsi che non vengano perse altre vite.
Al contrario, il regime iraniano e il Qatar, le menti dietro l’offensiva e il virulento antisemitismo che fomenta questo conflitto, non pregano per la sicurezza del loro popolo, ma per la distruzione di Israele. Questa è lo spartiacque morale di questa guerra.
Elie Wiesel, nel suo capolavoro La notte, racconta che al termine della Shoah non ebbe pensieri di vendetta. Anche quando furono liberati dai campi e la sopravvivenza divenne una preoccupazione minore, non ci pensarono mai. Questa assenza di sete di vendetta è emblematica di Israele oggi.
Lo stato ebraico non è in guerra con Hamas, Hezbollah e l’Iran per vendicarsi del 7 ottobre. Israele non sta combattendo per imitare le crudeltà dei jihadisti. Sta combattendo per garantire che il 7 ottobre non si ripeta mai più.
Mai più, per la seconda volta in meno di un secolo: questo è il nocciolo della questione.
Più sconfortante della lotta in corso contro il jihadismo, che molti ci aspettavamo, è l’inaspettata simpatia o allineamento col jihadismo di ampie parti del mondo intellettuale e progressista. Rappresentano una minaccia persino più grande, perché non sostengono apertamente il nostro annientamento. Piuttosto, ammantano il loro odio con il linguaggio della giustizia sociale. Fingono che la loro lotta sia per i diritti umani, ma i loro cori che inneggiano all’intifada globale non lasciano spazio a dubbi.
Queste persone capiscono almeno cosa stanno invocando? Sanno cosa significa? Se avessero davvero a cuore la giustizia, non invocherebbero bagni di sangue che fanno strage di tutti, ebrei e arabi, soldati e civili. Non giustificherebbero le atrocità commesse un anno fa.
Non esiste una zona grigia morale: la linea tra il bene e il male in questo conflitto è chiara. Eppure molti cercano di confondere le acque. Sostengono che la questione israelo-palestinese è intricata, che le soluzioni sono elusive e cariche di ambiguità. Forse in passato era vero.
Ma dopo il 7 ottobre, le intenzioni dei nostri nemici sono diventate chiarissime. E non solo in quel giorno tetro, ma in tutto l’anno che è seguito, quando l’antisemitismo genocida ha mostrato ancora una volta il suo volto nelle proteste contro Israele, di pari passo con i missili iraniani e filo-iraniani.
Israele viene perseguito dalla Corte Penale Internazionale per aver rispettato il codice morale di guerra, mentre Hezbollah e Hamas sfuggono ad ogni accusa. Cosa succederebbe a parti invertite, se anche Israele nascondesse armi nelle sinagoghe e negli asili? Cosa succederebbe se Israele usasse sistematicamente la violenza sessuale come arma di guerra a Gaza e nel Libano meridionale? Qualcuno riesce anche solo a immaginarlo? Ovviamente no.
Le intenzioni contano. Il mondo che Israele cerca di promuovere è un mondo in cui i israeliani, ebrei e arabi possano vivere in pace, come avviene all’interno dei suoi confini.
Se Israele avesse voluto spazzare via il popolo palestinese, avrebbe potuto farlo molto tempo fa.
Eppure Israele è continuamente trascinato in guerra da coloro che sono ammaliati dal fanatismo genocida, da coloro che non si daranno pace finché non sarà sradicato fino all’ultimo ebreo, o non saranno sradicato loro stessi.
Dopo 76 anni di indipendenza, sappiamo che la sovranità non è un dono: è una responsabilità.
Non rinunceremo mai al nostro diritto di vivere liberi e in sicurezza nella nostra patria. Non abbiamo cercato questa guerra. Ma la porteremo a termine. E la faremo finire in modo tale che potremo dire, per la seconda volta in un secolo e una volta per tutte: mai più.
(Da: Jerusalem Post, 10.10.24)
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