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Libero Rassegna Stampa
04.10.2024 Il nostro Capodanno in tempi di guerra
Commento di Ugo Volli

Testata: Libero
Data: 04 ottobre 2024
Pagina: 24
Autore: Ugo Volli
Titolo: «Il nostro Capodanno in tempi di guerra. Celebriamo il futuro sotto le bombe»

Riprendiamo da LIBERO di oggi 04/10/2024, a pag. 24 il commento di Ugo Volli dal titolo "Il nostro Capodanno in tempi di guerra. Celebriamo il futuro sotto le bombe".

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Ugo Volli

Missili iraniani su Tel Aviv, alla vigilia del Capodanno ebraico. Anche stavolta sarà una festa in tempo di guerra, sotto le bombe. Israele non rinuncia a celebrare il futuro.

Ieri e oggi il mondo ebraico celebra Rosh Hashanà, il capodanno ebraico. Fra i significati di questa festa, il più importante oggi è questo: secondo la tradizione essa celebra la creazione di Adamo, progenitore di tutti gli uomini, che quindi sono davvero fratelli. È un invito alla pace e una ammonizione contro ogni razzismo. La settimana prossima cade la ricorrenza ebraica più solenne: il giorno di Kippur (dell’espiazione), dedicato all’esame di coscienza sulle ingiustizie commesse nei confronti degli altri e sui peccati; solo chi ha ottenuto il perdono dal suo prossimo, si spiega, può chiederlo a Dio. In mezzo a queste due ricorrenze religiose, lunedì prossimo 7 ottobre verrà il primo anniversario del terribile pogrom di Hamas. Si ricorderanno i 1200 uccisi, le donne violentate a morte, i bambini bruciati vivi, i 200 rapiti, di cui la metà resta in mano ai terroristi, e solo la metà di questa metà potrebbe essere sopravvissuta.
Dato che il calendario religioso ebraico è diverso da quello occidentale, il 7 ottobre dell’anno scorso coincise con la fine di una terza ricorrenza ebraica che quest’anno cadrà fra un paio di settimane: Succot, cioè la festa delle capanne, che richiede ai fedeli di soggiornare in fragili rifugi col tetto di frasche, per ritrovare il contatto con la natura, ma soprattutto per riconoscere la debolezza degli uomini di fronte alle forze naturali di cui fa parte purtroppo anche la malvagità umana e la necessità di farvi fronte.
Il simbolismo etico delle feste ebraiche, mal conosciuto in Europa, permette di capire meglio i sentimenti degli israeliani di fronte a una guerra che non hanno voluto, che si è imposta loro come una sciagura, provocando angoscia, lutto e sofferenza. È una guerra che Israele affronta con grande determinazione, consapevole, come ha detto il primo ministro Netanyahu all’Onu, di non avere alternative, di doverla combattere cioè non per conquistare vantaggi o territori che Israele non vuole, se non per il tempo e la misura necessarie all’autodifesa, ma semplicemente per non essere sterminati. Spesso durante quest’anno se n’è parlato come della “guerra di Gaza” o “di Hamas”, ma in realtà si tratta dell’aggressione che l’Iran, dopo averlo dichiarato in tutti i modi, ha mosso a Israele l’anno scorso usando i movimenti che arma, finanzia, dirige: Hamas, Hezbollah, gli Houti dallo Yemen, la Siria, gli sciiti dell’Iraq, quelli palestinesi (tutti, anche Fatah del “moderato” Abu Mazen), e altri ancora. Da un anno Israele deve resistere a questo assedio, condotto coi metodi del terrorismo o della guerriglia (cioè coi loro combattenti mimetizzati senza insegne nella popolazione civile, nascosti in fortificazioni sotterranee ricavate sotto scuole, ospedali, moschee, case di abitazione), ma anche con missili, droni, terrorismo. Oltre a questo attacco concentrico Israele , dopo un piccolo intervallo di solidarietà successivo al 7 ottobre, ha dovuto far fronte alla grande freddezza dell’Occidente: manifestazioni che gli imputano di “uccidere i bambini”, come si diceva degli ebrei nel Medio Evo, odi praticare il genocidio, una categoria criminale nata ottant’anni fa per descrivere proprio il tentativo nazista di distruggere il popolo ebraico. Molti governi (fra cui quelli britannico e americano) negano in tutto o in parte a Israele i rifornimenti di armi necessari alla sua difesa, altri votano per incriminarlo all’Onu e nelle corti di giustizia internazionali.

LA RESISTENZA

Ciò nonostante, Israele sconfigge l’assedio, ha eliminato i principali dirigenti e buona parte delle forze armate di Hamas e Hezbollah, ha respinto gli attacchi dall’Iran, riesce a vincere anche il freno costante dell’amministrazione Biden, che non vuole la sua distruzione ma considera pericolosa la sua vittoria. Bisogna chiedersi il perché di questa resistenza. Benché Israele sia un paese in maggioranza laico, il simbolismo religioso aiuta a capire. Gli ebrei sono un popolo antico, forse il più antico ad aver conservato continuità culturale ed emotiva con la loro storia più remota. Sanno di essere stati molte volte oggetti di odio e di tentato genocidio da forze enormemente maggiori, di aver pagato prezzi terribili, ma di essere sopravvissuti cercando degli amici ma contando sulle loro forze, restando se stessi, custodendo la loro cultura. L’inno nazionale di Israele si chiama Hatikva, cioè la speranza. È la speranza che fa far loro tanti figli anche in guerra, che porta i ragazzi di una società opulenta ad arruolarsi e a combattere una guerra durissima, che indica, come ha fatto Netanyahu all’Onu, la prospettiva di una “benedizione” futura nella pace col mondo arabo. La guerra che combattono è motivata dai valori della speranza, della coscienza, della pace, della comune umanità, della tolleranza. Sono i valori alla base dell’Occidente, che molti qui hanno dimenticato. Ma i soldati di Israele combattono anche per noi. Perché, come diceva Ugo La Malfa, la libertà dell’Europa si difende sotto le mura di Gerusalemme.
Possono arabi, ebrei, cattolici e agnostici vivere insieme? Possono. È successo e potrebbe ricapitare. Centinaia, migliaia di annidi guerre e persecuzioni non possono cancellare del tutto il sogno di una coesistenza pacifica dove la religione di uno non può (o non dovrebbe) innescare la rabbia degli altri. Instillare odio, infiammare gli animi, mettere famiglia contro famiglia, fratelli contro fratelli, compagni di banco a scuola contro il proprio miglior amico delle elementari.
La coesistenza pacifica era una realtà quotidiana sulle sponde del Mediterraneo. Lo abbiamo rimosso perché oggi pensiamo agli sbarchi più che ai motivi che spingono a queste immense ondate del nuovo esodo.
Sono nato in una famiglia dove la macedonia di culture è sempre stata la pietra angolare dei rapporti allargati costruiti dai miei genitori. Mamma e papà - nati lui a Sfax, in Tunisia, e lei a Ravenna in via di San Vitale - si incrociarono nella Roma bombardata dagli americani, sventagliata dai colpi di mitra delle SS . Gli americani di Roma Città aperta dovevano ancora entrare. Si campava con quello che c’era. Cattolici, maroniti, ebrei. Inglesi, francesi, spagnoli, italiani. Sono stato allevato ad accogliere tutti. Il sabato mio padre, cattolico convinto, andava a pregare al ghetto di Roma. In una delle più antiche chiese cattoliche (Sant’Angelo in Pescheria) appoggiata al portico d’Ottavia incuneata tra il Tempio Maggiore di lungo Tevere La bambinaia di mio padre e mia zia (nati a Sousse a villa Pistoretti nel 1923 e 1933), la chiamavano familiarmente Fattuma, Fatima. Che in arabo si traduce come “colei che svezza”. Insomma, gli venivano affidati i tesori più importanti di casa.
La figlia femmina, la primogenita, erede di una schiatta che affonda le radici in oltre cinque secoli. C’erano già i Castro a finanziare Isabella di Castiglia. C’erano i miei avi in Portogallo e Spagna.
La storia orale - tramandata dagli zii, dai pochi parenti rimasti in Tunisia e dai nonni – per me mezzo secolo dopo è ancora un groppo alle viscere.
Oggi, a quasi un secolo dalla seconda espulsione della famiglia di mio nonno Michele Castro (la prima intorno al 500 dalla Spagna), e di mia nonna Eloise Serra, fa riflettere su come l’odio possa scombinare irriversibilmente la vita di intere famiglie. E fa male. Tanto male.
La festa del Capodanno ebraico non esiste nella Torah. Poi i rabbini (Rav) potrebbero discutere giorni e settimane su questa asserzione. Sta di fatto che Rosh Hashanà è la festività che celebra il “giorno del ricordo”.
La ricorrenza per il popolo d’Israele ricorda la creazione del mondo. Laicamente si direbbe che è il “compleanno” della terra. Un evento tutt’altro che religioso ma di rilevanza universale. Celebra il giorno in cui furono creati il primo uomo e la prima donna. Insomma, tutta l’umanità discende dalla prima coppia, gode di pari diritti e dignità in quanto ogni uomo è figlio di Dio. Volete chimarli Adamo Ed Eva (Antico Testamento)? Fate voi.
Esiste una tradizione antica del capodanno ebraico che andrebbe spiegata a chi nelle manifestazioni propalestina grida a squarciagola «from the river to the sea», vale a dire dal Giordano fino al mare. Ipotizzando così la cancellazione di Israele che sorge proprio tra il fiume Giordano e il Mediterraneo.
Il rabbino Ariel di Porto ha ricostruito che la tradizione di gettare a mare o in un corso d’acqua (Tashlikh, letteralmente “getterai”), un cesto con le cose vecchie rappresenta l’impegno a lasciare andare via il passato, gli errori, l’odio. Rosh Hashanà è il giorno in cui l’uomo comincia a fare un esame di coscienza per giudicare se stesso, analizzare il comportamento durante l’anno trascorso, gli errori commessi, le tentazioni alle quali non ha resistito. E dovrebbe prendere l’impegno di cambiare, rafforzare le giuste decisioni, eliminare gli errori. Sono precetti che possono essere condivisi da tutti. Con la kippah o con la kefiah. Con la stella di David o il crocifisso. Le mie nonne mi benedicevano quando mi salutavano. Faccio lo stesso, da laico, con i miei figli la sera quando vado a dargli la buona notte. Shalom Abibi è un augurio di pace che coniuga due parole una ebraica, una araba: “Buon giorno amato mio”.

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