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Libero Rassegna Stampa
10.09.2024 Israele colpisce chi fornisce armi a Hezbollah
Cronaca di Claudia Osmetti

Testata: Libero
Data: 10 settembre 2024
Pagina: 14
Autore: Claudia Osmetti
Titolo: «Israele vola in Siria a colpire chi fornisce armi a Hezbollah»

Riprendiamo da LIBERO del 10/09/2024, a pag. 14, con il titolo "Israele vola in Siria a colpire chi fornisce armi a Hezbollah" la cronaca di Claudia Osmetti. 

Claudia Osmetti
Claudia Osmetti

Israele bombarda Tartus, Hama, Homs e un centro studi di ricerca militare in Siria. Sono tutte strutture che sostengono il terrorismo di Hezbollah contro Israele, con l'appoggio diretto dell'Iran.

Tartus. Le regioni di Hama e Homs. Il Cers (che sta per Centre d’etudes et de recherches scientifiques, ossia il Centro studi e ricerche scientifiche) di Masyaf che, però, al netto del nome altisonante, un po’ università all’occidentale e un po’ polo della scienza civile, altro non è che uno dei pochissimi programmi militari di Assad che ancora resistono nonostante i tredici anni di guerra in Siria (ed è rimasto in piedi, il Cers, perché, ormai da tempo, è l’Iran a finanziarlo, con qualche aiutino qua e là che viene dalla diade non proprio tranquillizzante Russia - Corea del nord). Sono questi gli obiettivi colpiti dai bombardamenti israeliani di lunedì notte: un attacco in tre fasi, eseguito dalle Idf, le forze di difesa ebraiche, che ha causato 25 vittime e 32 feriti (secondo i dati forniti dal Sohr, l’Osservatorio siriano per i diritti umani che ha sede a Londra). Tra i morti ci sarebbero cinque civili, quattro membri delle forze governative, due combattenti di Hezbollah, undici affiliati alle milizie iraniane e tre persone ancora non identificate. È l’Iran il catalizzatore. Sua la presenza, sua la longa manus, sua la trama che va dal Libano a Damasco: e infatti è l’Iran che il premier israeliano Benjamin Netanyahu vuole colpire quando dà l’ordine ai suoi, ed è ancora l’Iran che risponde, immediatamente, con la retorica di sempre, condannando «l’attacco criminale israeliano in Siria», chiedendo ai «sostenitori del regime israeliano» di «smettere di armare i sionisti» e invitando l’Onu a «prendere misure più serie contro i criminali barbari» (come se all’Onu, con la sua storia di risoluzioni e dichiarazioni quasi mai tenere nei confronti di Gerusalemme, sia necessario suggerire una cosa del genere).
Tira dritto, però, Netanyahu: il fronte libanese è una polveriera (nella tarda mattina un drone lanciato oltre confine colpisce un palazzo a Nahariya, nel nord del Paese, fortunatamente senza ferire nessuno), la tensione sale; a est il valico di Alleby (dopo l’attentato di domenica costato la vita a tre persone e al terrorista che s’è messo a sparare a casaccio una volta sceso dal suo camion) riapre ai pedoni al seguito di un incontro a quattro tra lo Shin Bet, l’Idf e i corrispettivi corpi giordani; da Teheran non fanno che arrivare minacce.
Minacce che Israele prende molto seriamente e che valuta in una riunione a due tra il generale Micheal Erik Kurilla (il capo del Comando centrale degli Stati Uniti atterrato arrivato ieri a Tel Aviv) e il tenente generale Herzi Halevi dell’esercito ebraico.
Dall’altra parte c’è l’incognita giordana perché oggi Amman va al voto per rinnovare il suo parlamento (sono oltre cinque milioni le persone chiamate alle urne): ma sulla campagna elettorale prima e sulle effettive operazioni di voto dopo pesa, per lo più, la guerra di Gaza. A seguito del 7 ottobre le manifestazioni a sostegno di Hamas hanno interessato anche il regno di Abdallah II (il conflitto ha colpito in maniera significativa l’economia giordana e la sua sicurezza, sulla quale incombe, tra l’altro, l’onnipresente spettro iraniano) e recenti sondaggi hanno chiarito come il 66% della popolazione abbia approvato la mattanza dei kibbutz e la presa degli ostaggi che è il vero, grande, fardello di Israele.
«Ascolto il grido delle famiglie», dice, a questo proposito, Netanyahu, «che hanno perso ciò che di più caro avevano.
Ascolto, presto attenzione e non giudico: sto facendo tutto il possibile per riportarli a casa (gli ostaggi, ndr) e vincere la guerra». Qualche ora prima il portavoce dell’esercito israeliano, Daniel Hagari, ha reso note le condizioni in cui erano tenuti prigionieri i sei ragazzi giustiziati dieci giorni fa dalla furia di Hamas: erano in un cunicolo stretto e buio, senza acqua né servizi igienici e i quattro maschi, prima di morire, hanno tentato di difendere le due donne che erano con loro. È questo che fa la differenza, alla fine, tra le belve che stuprano e ammazzano e chi mette la vita, la difesa del prossimo, prima di tutto il resto.

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