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Libero Rassegna Stampa
01.09.2024 Ecco i comizi di Trump
Commento di Giovanni Sallusti

Testata: Libero
Data: 01 settembre 2024
Pagina: 12
Autore: Giovanni Sallusti
Titolo: «Chi descrive Trump mezzo bollito e in crisi, non ha mai visto nessuno dei suoi comizi»

Riprendiamo da LIBERO di oggi, 01/09/2024, a pag. 12 con il titolo "Chi descrive Trump mezzo bollito e in crisi, non ha mai visto nessuno dei suoi comizi" il commento di Giovanni Sallusti.

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Giovanni Sallusti

Donald Trump in un comizio elettorale. Sta prevalendo una narrazione mediatica secondo cui, da quando Kamala Harris si è candidata, Trump annaspa ed è bollito. Niente di più lontano dalla realtà, basta vedere l'energia che emana nei suoi comizi.

La narrazione su una Kamala Harris in ascesa inarrestabile e salvifica, sospinta dallo spirito del tempo wokista, ha un contraltare speculare: il racconto (altrettanto manicheo, e quindi fondamentalmente farlocco) su un Donald Trump che arranca, che incespica, che fallisce persino nella sua specialità riconosciuta, l’ottimizzazione oratoria dei rally nell’America profonda.
Ora, che il candidato repubblicano non abbia ancora interamente focalizzato il baricentro della nuova campagna contro il nuovo avversario è un dato di cronaca, perdipiù fisiologico. Che sia irrimediabilmente bollito e in crisi sentimentale con l’anima americana, invece, è vero solo nell’acquario degli analisti italici, e per accorgersene basta prendere un suo comizio recente.
Potterville, piccolo comune della contea di Eaton, Stato del Michigan, piena Rust Belt alla ricerca del tempo perduto e industrializzato, con una specifica non da poco: è governato da Gretchen Whitmer, astro nascente democratico.
Ma è anche uno spicchio d’America tuttora saldamente legato alle ragioni fondative del trumpismo, e lo dimostra anzitutto la cornice: decine e decine di operai del settore siderurgico, con i classici elmetti e giubbotti riflettenti, che sorreggono per tutto il tempo del discorso (un’ora e mezzo circa) una miriade di cartelli con una parola d’ordine sola, scandita tre volte. “Jobs!
Jobs! Jobs!”. È il motivo stesso per cui The Donald esiste come fenomeno politico, la produzione reale nella nazione reale contro il bigino globalista (e quindi involontariamente sinofilo, almeno dai tempi di Bill Clinton), lui lo sa e mostra di ricordarselo perfettamente, fin dal primo affondo diretto.
«Sono qui oggi con un semplice messaggio per il lavoratore automobilistico americano e per il lavoratore americano: il vostro lungo incubo economico finirà molto presto!».
È un Trump indiscutibilmente in forma, non è lo show costante che metteva in scena nel 2016 e nemmeno (meglio così) lo sfogo veemente del 2020, ma ci sono l’empatia con l’uditorio, le frasi secche e assertive, le pause non eccessive prima della battuta. Soprattutto, non è vero che gli attacchi all’avversaria sono gratuiti, frutto del livore e ridotti a meri insulti, come insiste la pubblicistica ultra-kamaliana al di qua dell’Oceano. Piuttosto, e qui davvero gigioneggia sapientemente, va a snidare un punto di contenuto, va a prendere di petto il tentativo di restyling narrativo della Harris, intenta a presentarsi come voce centrista (ri)tarata sulla middle class. «Lei e Joe Biden hanno reso invivibile e insostenibile la vita alla classe media americana» (il riferimento è soprattutto al combinato disposto tasse&insicurezza, e il pubblico di Potterville lo coglie immediatamente), mentre «la mia visione è quella di una classe media che sia ancora una volta invidiata da tutto il mondo». «Accadrà, e accadrà velocemente», e qui Trump si gioca due assi in uno: la credibilità fattiva del businessman, e la credibilità politica di un primo mandato puntellato dalla piena occupazione e da fondamentali economici da era reaganiana. Per converso, inchioda la rivale a promesse messianiche che stridono con l’attuale ruolo («Farò questo, farò quello... Ma perché non l’hai fatto in tre anni e mezzo?») e al fallimento oggettivo sul dossier per cui aveva esplicito mandato politico: «Non le importa delle morti, della droga o dei criminali che attraversano il confine. È vicepresidente da quasi quattro anni e non ha fatto nulla per fermare l’invasione del nostro Paese». Sembra tutto, tranne che uno sfidante in affanno, o almeno sicuramente non è così che lo percepisce il suo popolo, questo popolo fatto di operai e media borghesia, comunque classe produttiva, che lui galvanizza con eccesso retorico: «Tutti noi oggi facciamo parte del più grande movimento politico della storia del nostro Paese». Iperbolico, ma certamente non annaspante, e funziona. Come funziona l’incursione nel campo altrui, per cui Kamala «non si preoccupa dei diritti delle donne, perché ha sostenuto la distruzione degli sport femminili e delle borse di studio atletiche.
Vuole che gli uomini giochino negli sport femminili». È il fondamentalismo gender che ha nel mirino, e verosimilmente molte donne “workers” condividono. Ma l’effetto scenico più riuscito è quando ricorda che la Harris è stata tra i leader che hanno sostenuto il movimento “Defund the policy”, la geniale ideona progressista di tagliare i fondi alla polizia, ormai per costoro sempre sinonimo di squadraccia suprematista.
«Potrei dire solo questo, salutare e andarmene», e qui è il Trump-intrattenitore migliore, è puro sarcasmo da The Apprentice ritagliato sulle contraddizioni dell’avversario politico. L’acme programmatico, invece, è quando deborda scientemente dallo spartito, e chiama uno degli operai siderurgici a intervenire direttamente sul palco. Il lavoratore americano versus Oprah Winfrey. Sì, il trumpismo è ancora vivo.

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