Le tre lezioni del (fallito) attentato a Tel Aviv Analisi di Moshe Phillips
Testata: israele.net Data: 29 agosto 2024 Pagina: 1 Autore: Moshe Phillips Titolo: «Le tre lezioni del (fallito) attentato a Tel Aviv»
Riprendiamo dal sito www.israele.net - diretto da Marco Paganoni - l'analisi di Moshe Phillips tradotto dal Israel HaYom dal titolo "Le tre lezioni del (fallito) attentato a Tel Aviv".
Il mancato attentato suicida a Tel Aviv potrebbe sembrare solo l’ennesimo tentativo di perpetrare un attentato terroristico, fallito o sventato per un qualsiasi motivo e regolarmente ignorato dalla comunità internazionale. Ma se si guarda più attentamente, si vede che c’è molto da imparare da questo incidente. Cominciamo dal fatto che l’attentatore, Jafar Muna, era un abitante di Nablus (Sichem, in ebraico), una città governata dall’Autorità Palestinese. Perché ha percorso tutta la strada fino a Tel Aviv, a una settantina di chilometri di distanza, per compiere l’attentato? Dopo tutto, se Nablus e le altre città arabe palestinesi sono “occupate” – come mass-media e “pacifisti” affermano continuamente – perché non ha attaccato gli “occupanti” proprio lì dove si trovava? Perché spostarsi fino a Tel Aviv rischiando di essere sorpreso e catturato lungo il tragitto? Semplice: perché non ci sono israeliani a Nablus, a parte una pattuglia di soldati che (in conformità agli Accordi di pace ndr) proteggono un antico sito religioso ebraico, la Tomba di Giuseppe. Nonostante quanto affermano i nemici di Israele, non c’è nessuna “occupazione israeliana” a Nablus. Il governatore israeliano e l’amministrazione militare israeliana se ne sono andati nel 1995, in applicazione del cosiddetto Accordo Oslo Due. Se stessero ancora “occupando” la città, Jafar Muna avrebbe potuto comodamente prenderli di mira. Il fatto che Muna abbia dovuto lasciare Nablus e trovare un altro obiettivo dimostra che la presunta “occupazione” è una menzogna. Uccidere un paio di israeliani alla Tomba di Giuseppe non lo avrebbe soddisfatto. Lui voleva uccidere molti ebrei. Quindi, niente Nablus: ha puntato Tel Aviv. Tel Aviv si trova, ovviamente, all’interno delle linee armistiziali di Israele pre-1967. Non è un “insediamento”. Non sta “occupando” niente e nessuno. Ma a Tel Aviv ci sono un sacco di ebrei. O meglio: un sacco di bersagli ebrei. La seconda lezione dell’attentato di Tel Aviv ha a che fare con la risposta della famiglia dell’attentatore. “Amore mio, fratello mio, siamo orgogliosi di te, sia ringraziato Allah – ha dichiarato la sorella, Nahla Muna – Ti consideriamo uno dei martiri davanti ad Allah e ti lodiamo davanti ad Allah. Diciamo solo ciò che piace ad Allah: ad Allah apparteniamo e ad Allah ritorniamo”. Non basta. Ha continuato: “Ci incontreremo in paradiso. Ci hai preceduto dal Padre, che Allah abbia misericordia di lui, che Allah abbia misericordia di te e ti accetti, lode ad Allah. O martire, benedetto sia Allah”. In una società normale e civile, una persona si vergogna se uno dei suoi familiari più stretti commette un crimine efferato. Tentare di compiere una strage di persone innocenti è considerata una cosa piuttosto brutta. Un fratello o una sorella dell’aspirante assassino di massa condanna l’azione del parente o perlomeno ha la decenza di rimanere in silenzio. Non così nella società araba palestinese. Nahla Muna ha pubblicato l’elogio di cui sopra del fratello-stragista sulla sua pagina Facebook. E’ così orgogliosa del suo tentativo di massacrare ebrei che è disposta a rischiare l’arresto pur di proclamare il suo sostegno a quel gesto ignobile e spietato. Da notare anche che Nahla non è minimamente preoccupata che i suoi amici e vicini di casa a Nablus possano ostracizzarla vedendo i suoi commenti pro-terrorismo su Facebook. Nahla sa che anche loro sostengono l’assassinio di ebrei. Il suo datore di lavoro non la licenzierà. I suoi vicini non la eviteranno. E l’Autorità Palestinese non la arresterà per istigazione all’odio e alla violenza. Il che ci porta alla terza, e più importante, lezione dell’attentato a Tel Aviv: la risposta dell’Autorità Palestinese. O, più precisamente, la non risposta. Gli accordi di Oslo obbligano l’Autorità Palestinese a condannare gli attacchi terroristici. Ma l’Autorità Palestinese non ha detto una parola sull’attentato a Tel Aviv. Perché? Perché l’Autorità Palestinese non lo disapprova. Di più, l’Autorità Palestinese sostiene il massacro di ebrei. Jafar Muna è ora considerato un “martire” ufficiale dall’Autorità Palestinese, il che significa che la sua famiglia ha diritto a un sussidio mensile per il resto della vita. Gli Accordi di Oslo prevedono inoltre che l’Autorità Palestinese smetta di insegnare “odio e istigazione” nelle sue scuole. Invece, da 30 anni agli scolari arabi palestinesi viene insegnato che gli ebrei sono malvagi, che i terroristi sono eroi e che tutto Israele è “Palestina occupata” e deve essere distrutto. Jafar Muna ne è la prova. Era il prodotto del sistema educativo dell’Autorità Palestinese. È stato istruito da insegnanti dell’Autorità Palestinese e ha studiato sui libri di testo dell’Autorità Palestinese. Ha assorbito i loro messaggi di odio antisemita. E ha agito di conseguenza. La bomba di Muna è esplosa prima del previsto. Ma quanti altri Jafar Muna ci sono in circolazione? Tanti. Perché l’Autorità Palestinese “moderata” e che “vuole la pace” ne ha cresciute intere generazioni. E mentre lo faceva, il mondo se n’è stato zitto in disparte. (Da: Israel HaYom, 26.8.24)
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